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giovedì 9 marzo 2023

La matematica del suono


 

La musica è una forma d'arte che coinvolge molteplici aspetti, tra cui la melodia, l'armonia, il ritmo e il timbro. Tuttavia, uno degli aspetti più interessanti e affascinanti della musica è la sua connessione con la matematica e la fisica acustica. In questo articolo, esploreremo in dettaglio gli aspetti logico matematici della musica, mettendoli in relazione con la fisica acustica e la creazione degli armonici.

Per comprendere come la matematica e la fisica acustica influenzano la musica, dobbiamo prima capire il concetto di suono e la sua struttura fondamentale. Il suono è una forma di energia che si propaga attraverso un mezzo, come l'aria o l'acqua, sotto forma di onde sonore. Queste onde sono caratterizzate da diverse proprietà, come la frequenza, l'ampiezza e la fase.

La frequenza è la misura del numero di cicli che un'onda sonora compie in un secondo, ed è espressa in Hertz (Hz). L'ampiezza, invece, è la misura dell'intensità del suono, ovvero della sua pressione, ed è espressa in decibel (dB). Infine, la fase è la misura della posizione dell'onda sonora nel suo ciclo.

Uno dei concetti chiave della fisica acustica è l'idea che ogni suono è composto da una serie di armonici, ovvero di onde sonore che vibrano a frequenze multiple della frequenza fondamentale. La frequenza fondamentale è la frequenza più bassa che caratterizza un suono, ed è quella che determina la sua nota musicale. Ad esempio, la frequenza fondamentale di una nota La di ottava centrale è di circa 440 Hz.

Tuttavia, ogni suono è anche composto da una serie di armonici superiori, che sono vibrazioni a frequenze multiple della frequenza fondamentale. Questi armonici superiori sono quelli che conferiscono al suono il suo timbro e la sua complessità. Ad esempio, se si suona una corda di chitarra elettrica, si sentiranno non solo la frequenza fondamentale, ma anche una serie di armonici superiori che si sovrappongono e creano il suono complessivo.

La relazione tra le frequenze degli armonici superiori e quella della frequenza fondamentale è basata sulla sequenza di Fibonacci, una successione numerica in cui ogni numero è la somma dei due numeri precedenti. Questa sequenza è presente in molteplici fenomeni naturali, tra cui la distribuzione delle foglie sulle piante, la struttura dei conchiglie dei molluschi e la disposizione dei semi di alcune piante. In musica, la sequenza di Fibonacci è presente nella struttura delle scale musicali, nella disposizione delle note all'interno di un accordo e nella disposizione degli armonici superiori di un suono.

Ad esempio, se si suona una nota La, la sua frequenza fondamentale sarà di circa 440 Hz. Il primo armonico superiore sarà a 880 Hz, ovvero il doppio della frequenza fondamentale. Il secondo armonico superiore sarà a 1320 Hz, ovvero tre volte la frequenza fondamentale. Il terzo armonico superiore sarà a 1760 Hz, ovvero quattro volte la frequenza fondamentale, e così via.

Inoltre, la disposizione degli armonici superiori all'interno di un suono è determinata dalla serie di Fourier, una formula matematica che descrive la scomposizione di un segnale periodico in una somma di onde sinusoidali. Questa formula afferma che qualsiasi segnale periodico, come ad esempio un'onda sonora, può essere scomposto in una somma di onde sinusoidali di frequenze diverse.

Questa scomposizione del suono in onde sinusoidali consente di analizzare e manipolare il suono stesso, ad esempio per creare effetti di riverbero, delay o chorus. Inoltre, la serie di Fourier è alla base della sintesi sonora, ovvero della creazione di suoni artificiali attraverso l'uso di oscillatori e filtri.

Infine, la matematica e la fisica acustica hanno un ruolo importante anche nella composizione musicale. Ad esempio, la teoria degli accordi si basa sulla relazione tra le frequenze delle note che compongono un accordo, mentre la teoria del contrappunto si basa sulla combinazione di diverse linee melodiche che si intersecano e si influenzano reciprocamente.

Oltre alla creazione degli armonici, la matematica gioca un ruolo fondamentale anche nella scrittura e notazione del ritmo musicale. La scrittura del ritmo avviene attraverso l'utilizzo di simboli, come le note e le pause, che indicano la durata di un suono o di un silenzio.

La durata di una nota è indicata mediante una figura musicale, che può essere una semibreve, una minima, una semiminima, una croma, una semicroma e così via. Ogni figura musicale ha una durata precisa, che può essere espressa mediante frazioni matematiche, ad esempio una semibreve corrisponde a una durata di quattro battute.

Inoltre, la scrittura del ritmo musicale si basa sulla suddivisione del tempo in unità regolari, come le battute e i tempi. Ad esempio, una composizione in tempo 4/4 prevede quattro battute per ogni misura, e ogni battuta può essere divisa in quattro tempi.

La scrittura e la notazione musicale si basano quindi sulla matematica e sulla regolarità delle unità di misura, che consentono di rendere il ritmo musicale preciso e misurato. In questo modo, la matematica contribuisce a rendere la musica un'arte universale, in cui la scrittura e la comprensione del ritmo non dipendono dalla lingua parlata ma dalla condivisione di una struttura matematica comune.

 

sabato 11 dicembre 2021

La peste


Mentre leggo "La peste" di Camus mi ritrovo a considerare i nostri tempi afflitti dalla pandemia da Covid 19 da ormai 2 anni (e siamo appena entrati nel terzo). Siamo alla quarta ondata e l'inverno è ormai alle porte e con l'inverno tornano a salire i contagi i morti e le terapie intensive. Viviamo strani giorni, cantava Battiato e questi 2 anni sono sembrati più lunghi che mai tra speranze e paure. Ci siamo ritrovati più vecchi, soli e fragili in mezzo a qualcosa che credevamo appartenesse ormai ad un lontano e dimenticato passato: le pestilenze. 

Si dice che la storia si ripete e l'umanità di pestilenze ne ha conosciute moltissime e terrificanti. Alcune di queste hanno decimato popolazioni e fatto cadere citta e imperi. Marco Aurelio l'imperatore filosofo romano fu testimone della peste antonina che durò circa 30 anni e sconvolse l'impero romano decimandone le città e le truppe. Secondo alcuni storici l'impero non si riprese mai completamente da tale devastazione che porto poi al declino e alla caduta nei secoli successivi. Le stime parlano di un numero di morti compreso tra 5 e 30 milioni, numeri enormi considerando che la popolazione europea dell'epoca era stimata essere intorno ai 34 milioni di abitanti. 

Stiamo entrando nel terzo anno del covid dicevo e non ne possiamo più, siamo sfiniti, riuscite ad immaginare gli antichi romani vivere 30 fottuti lunghi anni in questa maniera e senza vaccini e medicine? Viene da chiedersi come abbiano potuto farcela. Nel frattempo c'era la vita di tutti i giorni da portare avanti (non esistevano i lockdown) e Marco Aurelio combattè contro i germani e su molti altri fronti in quel trentennio. 

Oggi abbiamo la scienza e i vaccini (che una parte della popolazione rifiuta) e potremmo non farcela lo stesso e per molte ragioni. Se entrassimo in una pandemia perenne tra mutazioni di virus, rifiuto dei vaccini e impossibilità di vaccinare 8 miliardi di abitanti che succederebbe al nostro mondo di oggi? Probabilmente finirebbe per collassare su se stesso. Gli anni 2000 sono stati segnati da continue emergenze e "crisi" di tutti i tipi. Economiche, politiche, climatiche, ora sanitarie. Il mondo vive (o sopravvive) in uno stato di crisi perenne da ormai oltre 20 anni a partire dall'11 settembre 2001 con tutto quello che ne è poi conseguito.

Dopo il crollo dell'impero romano (d'occidente) nel 476 d.C. dovettero passare oltre 1000 anni, prima che l'occidente potesse tornare a vedere la luce nel cosidetto Rinascimento dopo il buio del medioevo. La storia ha i suoi tempi nei quali noi umani restiamo intrappolati spesso potendo fare poco o nulla.

La pandemia sembra restituirci proprio questo senso di impotenza nei confronti dei limiti dell'esistenza umana. Ogni volta che ci crediamo onnipotenti la Natura in qualche modo torna a ridimensionare i sogni di gloria dell'uomo e a ricordarci che non siamo poi così importanti.

La regina degli scacchi


 "Chess is life" diceva Bobby Fisher il primo GM (Grande Maestro) americano a vincere una competizione contro l'URSS nel 1972 in piena guerra fredda, in quella che fu soprannominata la sfida del secolo e non è un segreto per nessuno che Walter Tevis si sia parzialmente ispirato alla vita di Bobby quando mise nero su bianco il suo capolavoro "The queen's gambit"nel 1983. Tevis aveva pubblicato il suo primo romanzo di successo nel 1959 "Lo spaccone"(The hustler)  da cui venne tratto un film acclamato in tutto il mondo con Paul Newman girato in uno splendido bianco e nero per la regia di Robert Rossen. Il film segnò l'inizio della collaborazione col cinema di Walter Tevis. In seguito ben 4 dei suoi 6 romanzi pubblicati vennero traferiti su celluloide da Hollywood e l'ultimo è proprio "La regina degli scacchi" prodotto da Netflix che rappresenta sicuramente uno dei più grandi successi di critica e di pubblico della piattaforma a oggi. 

C'è qualcosa nel modo di scrivere di Tevis che lo rende un autore preferito dai registi. Il suo stile asciutto e privo di fronzoli, il suo modo di "fotografare" la realtà e di saper costruire storie con una narrazione "do it or die it"(o ce la fai o muori) tipiche di una certa frontiera americana che ama le sfide e che esalta l'individuo che riesce ad emergere nonostante le difficoltà dell'esistenza. C'è un fine "educativo"o motivazionale nella sua narrativa che è quello del perdente di successo che sembra rifarsi alla filosofia anglosassone di Tomas Hobbes "Homo homini lupus". In un mondo di conflitto dominato dalla "sopravvivenza del più forte" in senso Darwiniano i "diversi" delle sue storie partono da uan posizione di svantaggio. Beth è un orfana che riesce a riscattare la propria vita grazie agli scacchi. Il mondo non sembra essere un luogo molto interessante per lei ma trova nella perfezione cartesiana della scacchiera lo scenario perfetto per mettersi in gioco. Kasparov dice che le nostre partite sono piene di errori (e se lo dice lui) ma quello che conta è comprendere il meccanismo del ragionamento, quello che ci porta a compiere delle scelte (mosse) giuste o sbagliate. Attraverso questa continua analisi è possibile pervenire ad un modello di comprensione della mente umana, della sua psicologia e delle sue modalità. In questo gli scacchi rappresentano certamente un modello del pensiero umano e filosofico dove la sfida vera è sempre e sopratutto nel superare se stessi e i propri limiti.

giovedì 18 marzo 2021

Siamo noi i replicanti


Che cos'è il mito della caverna di Platone se non una visione futuristica del cinema per noi contemporanei? E chi sono quegli uomini in catene che guardano immagini (ombre) riflesse dal "fuoco"  su una parete?  Avevo 17 anni quando ho visto il primo Blade Runner in un cinema di Milano in prima visione nell'ormai lontano 1982. 

La sala era gremita e molti lo guardarono in piedi. C'era molta attesa per questo film dopo Alien del 1979 in cui Ridley Scott si presentava come il nuovo regista visionario della SF. In quell'anno uscì un altro film "La cosa" di John Carpenter rifacimento di "La cosa da un altro mondo" del 1951 il cui tema era in qualche modo simile a quello di Alien. L'eterna storia del licantropo "azzannato" (da un cane o da un alieno) che si trasforma in qualcosaltro in un mostro, un diverso, un alieno appunto.

 Nel 1982 l'aids era già una realtà anche se in italia ancora poco conosciuta (30 milioni di morti e nessun vaccino a oggi) e quel clima di claustrofobico terrore ben espresso in entrambi i film fu in qualche modo l'annunciato presagio di un mondo a venire nel modo in cui a volte gli uomini riescono a leggere un futuro confuso attraverso impercettibili sogni (o incubi)  Il Blade Runner di Mr. Scott era ambientato in quello che per noi allora era ancora un futuro lontano, il 2019 di una crepuscolare e notturna Los Angeles ed era tratto da una delle opere di un altro scrittore di culto della SF americana Philip K. Dick. Il tema di tutta l'opera dello scrittore californiano è facilmente riassumibile in una sola domanda: che cos'è la realtà? Un problema di sempre della filosofia (a partire da Platone appunto) ma non molto frequentato in letteratura e specialmente dagli scrittori di SF da sempre (ingiustamente) considerata un ramo minore della narrativa.

Inutile dire che quel film è oggi considerato un cult ed è entrato di diritto nella storia del cinema e non solo di fantascienza. All'epoca (nei ruggenti 80 della Milano da bere) era solo un buon film distopico, un vago rumore di fondo in una realtà fatta di slanci verso un radioso futuro tutto da conquistare tra l'ottimismo reganiano e la "crescita felice" di un nuovo benessere che era fatto di debiti e plastica, ma lo avremmo capito più tardi anche se le voci contrastanti alla lettura mainstream non mancarono sin da allora. Ottimismo era la parola d'ordine di quegli anni e Blade Runner che ci mostrava un cupo futuro niente altro che un film. Forse è utile ricordare un'altra opera di grande successo mondiale di quel periodo che aiuta a mettere a fuoco gli anni 80, in questo caso un opera di narrativa da cui anche qui fu in seguito tratto un film di grande popolarità: Il nome della rosa di Umberto Eco. Un libro che ha venduto ad oggi qualcosa come 55 milioni di copie nel mondo, un opera in questo caso che parla del passato e non di un futuro prossimo, un libro ambientato nel medioevo. 

Mi sono spesso chiesto in quegli anni il perchè di un successo così eclatante (al di la degli ovvi meriti di narrazione di un maestro come Eco) in un opera "dark"anche se abilmente cammuffata da "giallo" in piena epoca di ottimismo ed edonismo reganiano. Oggi dopo aver viaggiato nel futuro, nell'unico modo possibile cioè invecchiando, posso tentare una risposta. Eco non parlava del passato ma del futuro prossimo nello stesso modo di Blade Runner. Il nuovo medioevo nel quale oggi siamo completamente immersi senza farci mancare nulla, nemmeno la nuova peste del covid 19.

Nel libro di Eco la cultura è uccisa attraverso l'occultamento del libro di Aristotele sulla satira. Nessuno ride mai a parte Salvatore il monaco storpio e matto. Nessuno ride mai nemmeno nei vangeli o nella bibbia, Gesù non ride e se lo fa nessuno ne ha mai scritto. Eco è ben consapevole di questo e costruisce un opera intorno a un periodo storico fornendoci anche l'arma per uscirne. La satira, la risata, la caricatura, la parodia di cui si è ormai persa traccia nel romanzo e nel cupo tempo presente della pandemia e di questo nuovo medioevo.  Apro parentesi -Uno degli slogan più belli del 68 era: "sarà una risata che vi seppellirà" e il fatto che un geniale comico sia nel frattempo diventato il fondatore del più grande movimento rinnovatore in italia (comunque la ai pensi questo è un fatto) non è ancora stato pienamente compreso mi pare. - chiudo parentesi.

Oggi, nel 2021, il tempo di Blade Runner che era il futuro all'epoca dell'uscità del film, è solo il passato. Il 2019  l'anno di inizio della pandemia in Cina. La "profezia" è compiuta, intelligenza artificiale, Cyborg, supercomputer, metadati,identità digitale, big data, big corporations, virtual reality, rete, connessione digitale, automi, computer quantistici sono ormai tutte realtà in divenire. 

"E' tempo ormai per un nuovo film" deve essersi detto Ridley Scott (questa volta in veste di produttore) e infatti ne fa uscire un'altro nel 2017 per la regia di Dennis Villeneuve: Blade Runner 2049. L'asticella si sposta più in la di una trentina d'anni, grosso modo come nel primo film, ma la metafora rimane la stessa. I replicanti siamo noi che assomigliamo ormai sempre più a macchine senza nulla di umano. Si cercano briciole di umanità nell'unica forma possibile, il ricordo. Qualcosa che aveva ben capito già Proust ai suoi tempi. Il ricordo come conoscenza e riscatto dell'umano. Noi siamo i nostri ricordi e siamo plasmati dai ricordi, altrimenti siamo solo alberi morti o cyborg, che fluttuano nel perenne, continuo e roboante messaggio subliminale, di un eterno presente il cui mantra filosofico è quello di una pubblicità: Life is now

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mercoledì 7 febbraio 2018

Impossible music, synclavier e altre storie

L'ultima collaborazione di Zappa è quella con l'Ensamble moderne celebrata nel live The yellow shark. Il compositore di Baltimora (di origini siciliane) chiude la sua carriera con quello che rimase a suo dire il  pricipale ostacolo artistico durante l'intero arco della sua carriera: la gestione degli ensamble orchestrali.

Zappa ben racconta le sue vicissitudini orchestrali nella sua autobiografia "The real FZ book" relegandole nel settore "orchestral stupidities" per sottolineare con la sua abituale ironia il tempo e i soldi che dice di averci perso.
Ma al di la delle questioni di "costume" resta il fatto sul quale uno dei miti della carriera di Zappa era costruito: l'insuonabilità delle sue partiture o quantomeno di alcune di esse". Zappa fu tra i primi se non il primo ad utilizzare e studiare estensivamente il Synclavier (uno dei primi sitemi digitali per la composizione musicale estremamente costoso all'epoca e che solo in pochissimi potevano permettersi) per le sue composizioni negli anni 80. Quella che Frank chiamava "the machine" fu installata al piano inferiore della sua casa nel mitico "Research Utility Kitchen" in poche parole il suo home studio nel basament della sua villa fuori LA.
Il primo album che Zappa pubblica interamente utilizzando il Synclavier è Francesco Zappa dedicato alla riproposizione delle musiche di un suo omonino (e anonimo) compositore e violoncellista milanese del XVII secolo. E' un album fra i più interessanti di tutta la (ampia) discografia del maestro e per molteplici ragioni. Intanto come si è detto l'uso del Synclavier per la prima volta nella realizzazione di un album intero. Quindi in qualche modo Zappa è anche il primo ad occuparsi di quella che oggi si chiamerebbe computer music o composizione digitale. Inoltre questo è l'unico album interamente dedicato a musiche non scritte da lui medesimo e per un compositore prolifico e immaginifico come Zappa rappresenta certamente un unicum in tutti i sensi.Oggi si direbbe che è il suo unico album di cover e sono cover del 1700.
Zappa non lo dice ma quest'album gli serve (anche) per prendere pienamente possesso delle possibilità che la macchina gli offre e che poi confluiranno in altri mirabolanti album ed esperimenti  successivi. E' solo una mia opinione personale naturalmente, ma difficile da confutare, forse anche perchè il maestro nel frattempo ha lasciato questi ameni lidi terreni per altre e non meglio precisate destinazioni.
Quindi Zappa trova da quel momento (1984) in poi il suo principale alleato nel Synclavier questa sorta di mostro Frankesteiniano sogno e incubo di tutti i moderni compositori. La perfezione dell'esecuzione di ciò che si scrive, e la liberazione da tutti gli inutili e difficili orpelli economici e organizzativi legati alla esibizione con un orchestra vera in carne ed ossa.

Zappa stesso però si renderà conto presto della vanità del suo sogno di Frnakestine, dare vita alla morte, produrre arte solo con gli 0-1 e i bit. e non a caso per l'appunto tornerà ad utilizzare una vera orchestra per il suo testamento artistico The yellow shark.

Oggi 34 anni dopo è probabilmente difficile comprendere per un ragazzo odierno immerso nella cultura digitale quanto il lavoro di pionieri come Zappa sia stato fondamentale nella comprensione e miglioramento di qualità tecnica e strutturale che da allora ad oggi ha investito la tecnologia con progressione geometrica.
Certamente comprese come pochi allora quanto la tecnologia digitale avrebbe cambiato la musica e la sua fruizione da parte di tutti.  Oggi il livello di tecnologia è altissimo e virtualmente indistinguibile dalla "realtà". La maggior parte della musica che ascoltate tutti i giorni attraverso mille media possibili (all'epoca c'erano solo gli album, le cassette e la radio) è prodotta attraverso i computer con l'ausilio di parti umane (voci e altro) e nessuno ormai nota più la differenza.

Ma tornando a Zappa che cosa è successo quindi alla sua musica e alle "partiture impossibili" ora che qualunque computer sarebbe in grado si suonare qualsiasi cosa? Sembrerebbe che oggi non interessino più a nessuno forse perchè i sogni dell'arte e degli artisti sono interessanti solo a patto che restino irrealizzabili. Listen on Apple Music App Icon Apple Music

lunedì 6 marzo 2017

I segreti del suono di Steve Ray Vaughan.


Il suono di un chitarrrista nasce dalla combinazione di molti elementi. Nel caso di SRV non bisogna dimenticare innanzitutto il tocco particolare di cui era dotato, l'uso di corde di grandi dimensioni (mi cantino 0.13) l'uso della pennata in giù per la maggior parte tipico dei chitarristi blues e molto altro ancora.
Inoltre non bisogna dimenticare che oltre la "geografia tecnica" di chitarre, amplificatori, corde, effetti e quant'altro esistono elementi difficilmente quantificabili che fanno parte della personalità del musicista. I grandi musicisti possiedono "il suono" che li identifica immediatamente. Immaginate per esempio di ascoltare bendati la chitarra di Santana, chi non la riconoscerebbe al primo ascolto? Quel suono e timbrica unici sono i suoi e di nessun altro esattamente come la voce di ciascuno di noi è diversa. Per cui non limitatevi semplicemente all'analisi tecnica per quanto importante ma ricordate che lavorare sul suono significa sviluppare tecnica, manualità, e destrezza artistica e tutto questo richiede molti anni di duro lavoro.
Qualcuno poco esperto potrebbe possedere le chitarre e gli amplificatori di SRV ma questo non significa che possa avere comunque il suo suono. Questo è bene dirlo da subito per sgombrare il campo da possibili malintesi.

Fatta questa dovuta premessa cominciamo a vedere quali corde usava il nostro. Molti dei chitarristi rock degli anni 60/70 utilizzavano set di corde relativamente leggeri (pare che Page e Beck usassero le 00.8 e Hendrix le 9 o 10) set di corde più grandi erano di utilizzo esclusivo dei chitarristi jazz che non si ponevano grandi problemi di bending ma volevano un suono pieno e rotondo (un nome su tutti Pat Martino) Quindi Stevie usava 0.13 al cantino ma accordava un semitono sotto in Eb la scalatura utillizzata però era una sua customizzazione (per non avere il sol ricoperto). Utilizzava GHS nickel rockers (a volte pare le Boomers) in questa scalatura:

.013 – .015 – .019p – .028 – .038 – .058

Il suono parte dalle corde, è li che inizia e si sviluppa quindi un set robusto produce sound robusto ma attenzione non pretendete di avere un action bassa con set del genere sarebbe praticamente impossibile e le corde non avrebbero il giusto spazio per vibrare.

Amplificatori

Durante le registrazioni di "In step" l'ultimo album della sua carriera SRV aveva a disposizione in studio ben 32 amplificatori fra cui un Fender Twin 1962, un Fender Bassman originale 1959, un Fender Harvard e un Magnatone insieme al Fender Vibroverbs, Dumble Steel String Singers e molti altri Fender e Marshall. Sperimentava con varie combinazioni in studio fino ad ottenere il suono che più lo soddisfaceva per registrare.

Vediamo più in dettaglio alcuni degli amplificatori più usati da SRV live e in studio:

1980 Marshall model 4140 Club and Country



Stevie usava questo ampli per i suoni puliti contrariamente a quanto di solito fanno i chitarristi (Fender per i puliti, Marshall per i distorti) anche perchè questo è considerato l'equivalente Marshall del Fender Twin Reverb.

1964 Fender Vibroverb


Per buona parte degli anni 80 il cuore del sound di SRV è costituito da un paio di questi amplificatori sul palco per il suo tipico suono overdrive.

Dumble Steel String Singer


SRV usava i Dumble per i suoni clean. Alexander Dumble è un artigiano californiano che produce questi ottimi (e molto costosi) amplificatori la cui caratteristica è l'estrema limpidezza del suono anche appunto utilizzando set molto grandi di corde. 



 Fender Super Reverb metà anni 60


SRV usava questo ampli per i suoni puliti in combinazione con il Vibroverb che usava esclusivamente per pilotare il rotating cabinet con cui produceva quel suo caratteristico sound leslie.

Effetti



Fra gli effetti maggiormente usati ricordiamo l'Ibanez tube screamer TS9 che veniva solitamente usato per produrre un boost pulito attraverso il Fender Vibroverbs per i soli con il livello al massimo e il gain piuttosto basso.

Fender Vibratone


Il famoso effetto "speaker rotante" in brani come "Cold shot" e "Couldn't stand the weather" era generato attraverso questo Fender Vibratone cabinet. Il Vibratone a differenza del Leslie enfatizza meglio i medi della chitarra. La Fender ne ha prodotti per tutto il periodo dal 67 al 72 ed è universalmente considerato uno dei migliori "rotating speaker" per chitarristi. SRV usava anche un Wha della Vox V846 un Dallas arbiter fuzz face e un Tycobrahe octavia per i suoni di tipo hendrixiano.
 


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domenica 26 febbraio 2017

Rock around the clock

Il primo prototipo del primo orologio long now per il computo del tempo nei prossimi 10.000 anni ha iniziato a funzionare il 31 dicembre 1999. Nelle parole di D.Hills che riassumono l'idea egli dice: « Voglio costruire un orologio che fa tic una volta l'anno. Il braccio dei secoli avanza una volta ogni cento anni, il cucù viene fuori ogni mille anni. Voglio che il cucù venga fuori ogni millennio per 10.000 anni. Se mi sbrigo dovrei farcela a finire l'orologio in tempo per far uscire il cucù la prima volta. »

Ma perché l'idea di un così lungo computo del tempo, di un orologio di queste dimensioni e di questa scala? Gli intenti sono ben spiegati dalla fondazione che fa capo al progetto The long now ma sostanzialmente si possono riassumere nella crescente necessità di ristabilire un sano e corretto rapporto con lo scorrere del tempo in dimensioni che tornino a superare la banale barriera dell'immediatezza che il mondo sembra ormai irrimediabilmente aver imboccato nella contemporanea epoca digitale. 
L'umanità si "misura" da sempre col tema della misura del tempo, le piramidi erano sostanzialmente concepite come "capsule del tempo" per il faraone e il sito di Stonehenge non è che un gigantesco orologio solare la cui costruzione è iniziata addirittura nel 3000 AC





Misurare il tempo serviva all'uomo per comprendere i tempi della semina e del raccolto e determinare le stagioni a cui poi venivano fatti seguire all'epoca dei solstizi, grandi celebrazioni e culti più o meno pagani. 


Uno dei calendari più elaborati, di cui si è discusso a lungo in epoca recente, a proposito della prevista (e ovviamente come al solito smentita) fine del mondo, è stato il calendario Maya con il suo lungo computo addirittura arrivato indenne alla nostra epoca attuale; quando quella civiltà aveva ormai cessato di essere da molti secoli. Felicemente aiutata in questo è bene forse ricordarlo dai solerti Cortez e Pizarro che dio li abbia in gloria. 

Quindi il tema del calendario per eccellenza il nostro gregoriano cosiddetto, introdotto da Papa Gregorio XIII nel 1582 e che andava a sostituire il calendario Giuliano che ormai aveva dimostrato di non reggere per l'appunto il "corso del tempo". Furono convocati astronomi e matematici fra i migliori in Europa all'epoca per risolvere il problema, nella sua forma attuale il calendario che ancora adottiamo in praticamente tutto il mondo occidentale si basa sull'anno solare. La terra ruota intorno al sole nella sua danza di milioni e miliardi di anni e gli uomini ultimi arrivati sul pianeta si affannano a prendere le misure in tutti i modi possibili. Ma per correttamente osservare la "danza" della terra intorno al sole occorrevano strumenti di grande precisione, un operazione che riguardava e riguarda la tecnologia, la matematica, la fisica, l'astronomia.

Ma il problema del computo del tempo non si limita certo al calendario o alle stagioni, che cosa ne sarebbe per esempio della musica senza il tempo? Il tempo è musica e la musica in questo senso offre uno dei suoi aspetti più squisitamente matematici allo studio dei teorici della forma. Hector Berliotz il grande pianista e compositore francese una volta disse: "Il tempo è un grande maestro peccato che finisca con l'uccidere tutti i suoi allievi". Ma da un punto di vista più strettamente tecnico la problematica della notazione musicale che ha richiesto diversi secoli e l'apporto di molti musicisti prima di essere redatta nella forma attuale, rappresenta certamente la più diretta testimonianza di quanto arduo sia stato il lavoro di "rappresentazione" e scrittura di qualcosa al limite dell'astrazione come il concetto del tempo. 





Certo la matematica (anch'essa scienza molto astratta ma che riesce ad essere dannatamente concreta alla bisogna) ha dato forma e ordine ma è bene ricordare da un punto di vista tecnico quanto la musica sia stata importante col suo computo del tempo per esempio nella realizzazione degli orologi meccanici. Ancora oggi la misura del minuto e i suoi 60 secondi (parte del sistema sessagesimale appunto) corrispondono ai 60 bpm (battiti per minuto) del metronomo musicale da cui appunto prendono forma. L'immenso Leonardo da Vinci ancora una volta (ebbene si era anche un musicista, ma c'era qualcosa che non sapesse fare quell'uomo di ingegno?) fu tra i precursori in questa scienza della misurazione che fu poi completata abilmente da Galileo ed applicata alla fisica classica. Ma il concetto della misurazione e divisione del tempo in parti uguali vengono dalla musica che è stato il primo sistema di misura anche con il semplice battito delle mani nella storia dell'uomo. Scienza e arte (e misura) ancora una volta e come spesso accade si compenetrano ed è difficile dire dove inizi l'una e finisca l'altra. 

Dal punto di vista della fisica di Newton il tempo è una quantità indipendente e immutabile rispetto allo spazio concetto che sarà scardinato completamente da Einstein nel XX secolo e dalla sua fisica della relatività che legano spazio e tempo nel continuum dello spaziotempo. Il che significa che non possono esistere in maniera indipendente e assoluta. Il tempo è legato allo spazio e viceversa. Contiamo il tempo dalla nascita dello spazio nell'evento che i cosmologi e i fisici chiamano comunemente Big Bang, prima non esiste lo spazio quindi per la fisica nemmeno il tempo. Il gigantesco orologio del tempo prende il via insieme alla creazione dello spazio e non può esistere senza di esso. 

L'esistenza umana si svolge nello spazio e nel tempo fra i due eventi ciclici di nascita e morte, "tutto scorre" diceva Eraclito e nessuno si bagna due volte nello stesso fiume. I greci avevano grande rispetto per Kronos che non a caso mangiava i suoi figli, ma certo lo scorrere del tempo in epoca antica e moderna non sembrano corrispondere. Oggi viviamo in una società che corre alla velocità della luce ed è in perenne accelerazione, anche la fisica ci dice che l'espansione dell'universo sta accelerando come se il tempo tutto insieme scorresse davvero più velocemente per tutti, è il cosiddetto fenomeno dell'energia oscura del quale i fisici stessi sembrano sapere ancora molto poco al momento.

Marcel Proust nella monumentale Recherche cerca di dare un senso allo scorrere del tempo e lo trova nella memoria e nella forma della parola scritta come manifestazione artistica. Nelle sensazioni,nei ricordi, nel vissuto di ciascuno di noi che siamo capsule del tempo rinchiuse in corpi umani (o anime più o meno tormentate se più vi piace come definizione) si nasconde l'anima in divenire di cui perdiamo conoscenza e memoria. In questo senso Proust è quasi certamente anche un precursore della psicoanalisi, con il suo continuo scavare e cercare alla ricerca di collegamenti di senso nella sua esperienza di vita. Ma è l'esperienza del ricordo in se che assume valore assoluto in Proust. Noi siamo i nostri ricordi che cosa altro potremmo essere d'altronde? Ed è nel ricordo e nella misura del tempo, per quanto relativa ci possa apparire, che troviamo lo strumento della conoscenza ultima, di noi stessi e della nostra appartenenza al mondo.