Zawinul mi disse: “I came from the street”
Introduzione: L'Eco di Due Sere
Ci sono storie che restano impigliate nella memoria, non come semplici ricordi, ma come cicatrici emotive che definiscono chi eravamo e chi siamo diventati. La storia di Jaco Pastorius a Milano è una di queste. Non è la cronaca di un solo evento, ma di due serate così opposte e inconciliabili da sembrare appartenere a due vite diverse, a due universi paralleli. Due concerti che ho vissuto sulla mia pelle, a sei anni di distanza l'uno dall'altro, e che raccontano l'ascesa divina e la caduta straziante di un genio.
Io c’ero. Io li ho visti. Io li ho sentiti. E ora li racconto. Perché qualcuno deve ricordare davvero.
Queste due notti milanesi non rappresentano solo due performance musicali, ma i due poli estremi di un'esistenza vissuta senza freni: la prima fu un sogno ad occhi aperti, l'apoteosi di un talento irripetibile; la seconda, un addio non dichiarato, un'agonia consumata in diretta davanti a un pubblico confuso e crudele.
1. Ottobre 1980, Palalido: L'Apoteosi di un Fenomeno
Il concerto al Palalido dell'ottobre 1980 non fu semplicemente un concerto. Fu il culmine, il punto più alto di una parabola artistica che sembrava poter toccare il cielo. Per comprendere la tragedia che sarebbe seguita, è essenziale partire da qui, da questa serata che consacrò i Weather Report e il loro "fenomeno vivente" nell'Olimpo della musica. Quella notte stabilì un metro di paragone assoluto, una vetta dalla quale, purtroppo, si poteva solo cadere.
È una fredda serata d'ottobre e ho quindici anni. Davanti al Palalido ci sono le camionette della polizia che caricano i soliti portoghesi che tentano di entrare senza biglietto, e io sono tra loro. Tra sassate, manganelli e spintoni, non so come mi ritrovo dentro, avvolto prima dall'odore acre dei lacrimogeni, poi, salendo le scale verso gli spalti, da quello più dolce e gradevole delle nuvole di erba e hashish che saturano l'aria. Il palazzetto è strapieno, l'atmosfera elettrica. Lentamente, mi rendo conto che qualcuno sta suonando l'introduzione di "Purple Haze" di Jimi Hendrix. Ma i Weather Report non hanno un chitarrista. Infatti, non è una chitarra. È Jaco Pastorius, con il suo basso fretless, che sta celebrando Hendrix come se lo avesse inventato lui.
E da quel momento in poi, la realtà si piega, si spezza, e si trasforma in uno dei concerti più assurdi, indecifrabili, e leggendari della mia vita.
Sul palco, la formazione è forse la più devastante nella storia della band:
- Joe Zawinul: tastiere e divinità
- Wayne Shorter: sax e silenzi cosmici
- Jaco Pastorius: basso fretless / fenomeno vivente
- Peter Erskine: batteria (raffinatezza assoluta)
- Robert Thomas Jr.: percussioni (appena entrato nella band)
La performance è stratosferica. Il Palalido si trasforma in una bolgia psichedelica, un'arena urbana diventata tempio sonoro. Non sembra un concerto, ma un rituale collettivo. Tra il pubblico, c'è la consapevolezza diffusa di assistere a qualcosa che non tornerà mai più. Questo è uno degli ultimi tour europei di Jaco con la band; nel 1981, se ne andrà, consumato da un crollo nervoso e dai dissapori con Zawinul. Quella sera molti sono i musicisti milanesi presenti in prima fila e alcuni di loro incontreranno poi Jaco Pastorius in qualche locale a fare jam infuocate fino all’alba. Eravamo testimoni della fine di un'era, anche se non potevamo ancora comprenderlo appieno.
Sei anni dopo, la realtà si sarebbe presentata in una forma irriconoscibile e brutale.
2. Primavera 1986, Teatro Tenda: L'Agonia in Diretta
La serata al Teatro Tenda nella primavera del 1986 rappresenta il tragico contrappunto al trionfo del Palalido. Non più l'apoteosi, ma la cronaca di una caduta. Quell'evento illustra il drammatico declino di un artista un tempo invincibile, ora fragile e perso, esposto davanti a un pubblico che non era preparato a vederlo così.
La scena è subito diversa. Jaco sale sul palco visibilmente alterato, il corpo presente ma la mente altrove. Quello a cui assistiamo non è una celebrazione, è un’agonia in diretta. Ogni tanto il genio riaffiora — un fraseggio che buca il silenzio, un attacco di groove che sembra una rinascita — ma è solo una fiamma che si accende per spegnersi subito, inghiottita dal buio.
La band che lo accompagna è composta da musicisti straordinari ma disordinati, una sorta di collettivo itinerante che si scambia gli strumenti brano dopo brano, tentando di tenere in vita qualcosa che si stava spegnendo davanti ai nostri occhi. È una jam post-umana, un caos controllato in cui momenti di lirismo pazzesco si alternano a puro disordine. La formazione probabile, ricostruita dalla memoria, era un'entità fluida:
- Jaco Pastorius: basso, voce, anima a pezzi
- Delmar Brown: tastiere, voce
- Kenwood Dennard: batteria, voce, e persino basso
- Alex Foster: sax, flauti
- Don Alias: percussioni
- Gerard D’Angelo: tastiere
Il pubblico, questa volta, non capisce. O peggio, non vuole capire. Aspettava l'eroe funambolico di "Teen Town" e "Birdland", e si trova davanti un uomo stanco, rotto, fragile. La reazione è crudele: insofferenza, fastidio, fischi. Una parte della sala se ne va, incapace di sostenere la vista del proprio idolo consumato. Un'altra resta, immobile e lacerata. E Jaco, in mezzo a quel vuoto, continua a suonare, come se sperasse ancora di poter tornare indietro.
Poco più di un anno dopo, nel settembre 1987, morirà a soli 35 anni, pestato a morte da un buttafuori. Quella sera a Milano fu il suo addio non dichiarato, un'ultima, disperata richiesta d'aiuto che nessuno seppe ascoltare. La memoria di quella caduta avrebbe trovato un senso solo molti anni dopo, grazie a un inaspettato incontro.
3. Epilogo a Parma: Conversazione con il Dio delle Tastiere
Anni dopo la morte di Jaco, un incontro a Parma offre una coda inaspettata a questa storia, fornendo una prospettiva cruciale dall'interno del mito dei Weather Report. L'incontro con Joe Zawinul non è solo un ricordo, ma la chiave di volta per comprendere la complessa dinamica tra i due titani e la disciplina ferrea che sosteneva il loro genio.
È la fine degli anni '90 e mi trovo in un teatro emiliano per un seminario di Joe Zawinul. Il mio ruolo è cambiato: non sono più il quindicenne tra la folla, ma il suo traduttore ufficiale, seduto accanto a lui. L'ho accolto poco prima; mi stringe la mano, mi dice che arriva da Parigi. Gli chiedo se è stanco, se vuole qualcosa da bere. Mi guarda e risponde: "Sì, un Pernod, grazie". Mentre il pubblico freme, lui si alza e zittisce tutti con una frase: "Ladies and gentleman I came from the street." Da quel momento, comincia a raccontare.
Traduco le sue parole, ma soprattutto ascolto tra le righe. Racconta dei morti che ha seppellito durante la guerra, prima di narrare di Jaco, che gli scriveva una lettera al giorno in bella calligrafia, definendosi il più grande bassista del mondo e supplicandolo di suonare con lui. Ricorda con lucidità la sua evoluzione artistica, catalizzata da un tassista di New York che, sentendo un suo brano alla radio, lo scambiò per Oscar Peterson, spingendolo a trovare una voce unicamente sua. Offre una distinzione artistica fondamentale e tagliente: "Pastorius non è un compositore... è un melodista", riservando invece un rispetto infinito per Wayne Shorter, che considera uno dei più grandi compositori viventi.
Più tardi, assisto alle prove. Vedo un Zawinul perfezionista, maniacale e dittatoriale, che dirige la sua nuova band come una macchina da guerra. Esige una precisione assoluta, urlando disperato contro il suo percussionista per un ciclo ritmico che non lo soddisfa. In quel momento, il contrasto con il caos del concerto di Jaco del 1986 diventa lampante. Capisco la struttura, la disciplina ferrea di un uomo che ha visto l'orrore della guerra e ha imposto un ordine assoluto alla sua arte per sopravvivere. Quella stessa disciplina che Jaco, nel suo genio indifeso, aveva perso per sempre.
Quell'incontro con Zawinul ha saldato i frammenti sparsi della mia memoria, dando un contesto e una profondità nuovi all'intera vicenda.
4. Conclusione: Frammenti di Memoria tra Milano e Vienna
Il solo divino di Jaco che squarcia l'aria del Palalido. I fischi spietati che lo inseguono al Teatro Tenda. La presenza autoritaria di Joe Zawinul che, a Parma, governa la sua musica con pugno di ferro. Questi sono i tre frammenti che, insieme, compongono la mia storia personale di un'era musicale irripetibile. Sono i tasselli di un mosaico che racconta la gloria e la tragedia, il genio e la sua fragilità.
Anni dopo, la storia trova il suo cerchio a Vienna. Ho scritto le musiche per un installazione di un amico pittore e mentre passeggiamo vicino a un mercato locale, il "Black Market", scopro il "Birdland", il club aperto da Zawinul nella capitale mondiale della musica. In quel momento, tutto torna: Zawinul, la world music, l'eredità di quei suoni che avevano cambiato la mia vita. Tutto era partito da lì, dal cuore dell'Europa, per poi tornare.
Alla fine, capisco che nulla è più sacro della memoria quando è vissuta in prima persona. È un dovere, oltre che un privilegio, custodire questi momenti. Raccontare l'apice e la caduta, il trionfo e il dolore, significa rendere giustizia non solo all'artista, ma all'uomo. Significa impedire che il tempo cancelli la verità di ciò che è stato.
Perché qualcuno deve ricordare davvero.

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