Belve / Belve Crime – La TV spazzatura con pretese da documentario

Caricatura di Francesca Fagnani che intervista un criminale incatenato, con grafico Auditel alle spalle e scritte “VIP decaduti” e “Crimine morboso”.


"Belve" e "Belve Crime": il trash che si traveste da giornalismo con la stessa credibilità di un laureato in medicina preso da YouTube



In principio era Belve, l’auto-proclamato programma “scomodo” condotto da Francesca Fagnani, la donna che ha fatto del tono passivo-aggressivo un’arte e dello sguardo di chi giudica tutti da sopra un gin tonic, un marchio di fabbrica. L’idea sembrava pure buona: interviste dirette, domande senza peli sulla lingua, la giornalista elegante ma tagliente che smonta i personaggi pubblici senza pietà. Solo che, col passare delle stagioni, è successo qualcosa. Qualcosa che in Italia accade SEMPRE: hanno finito le idee. E anche i VIP. Belve è l’ennesimo esempio di televisione italiana che pretende di essere raffinata, ma ha l’eleganza di una rissa in un parcheggio dell’Ikea. Francesca Fagnani si è costruita un nome facendo domande “scomode”, ma diciamolo: ormai più che belve, sembra stia intervistando i barboncini di casa Mediaset. L’“aggressività” si è ridotta al livello di un post passivo-aggressivo su Facebook da parte della zia Angela. Le interviste sono un mix tra il pettegolezzo da parrucchiere e il giornalismo da discount. Così il programma che prometteva belve si è ritrovato con un bestiario da fattoria: influencer smarriti, politici riciclati e personaggi famosi più per Wikipedia che per attualità. L’effetto belva è evaporato, lasciando il posto a un confessionale da salotto borghese in crisi d’identità.


 Quando l’auditel chiama, il true crime risponde



Ma il colpo di grazia? L’arrivo del degno spin-off: Belve Crime. Quando l’auditel chiama, il true crime risponde. Perché se il trash non basta, allora vai col true crime! Interviste ai serial killer, con musichette tese, sguardi drammatici e montaggio da fiction RAI delle 15:00. Perché sfruttare l’orrore umano per il prime time è diventato il nuovo happy hour. Da VIP decaduti a serial killer in prime time: il passo è breve (e scivoloso) Belve Crime è la dimostrazione lampante che se non puoi più spremere gossip dai famosi vivi, allora prendi i famosi... criminali. Serial killer, assassini celebri, maniaci da cronaca nera. Un salto di qualità, certo — verso il baratro. Ogni puntata è un mix di scenografia da noir anni ‘90, luci teatrali da soap opera e una colonna sonora da horror movie di serie B ”. Il tutto mentre Fagnani si aggira per il set con la stessa aria di chi sa che qualsiasi cosa dirà verrà comunque seguita da un’ondata di tweet tipo “Francesca queen”.


Le interviste ai mostri



È morbosità impacchettata con la carta da parati di “inchiesta giornalistica”, ma sotto sotto ha la stessa dignità etica di un reality girato in un obitorio. Le interviste? Mezzo giornalismo, mezzo “C’è posta per te” versione sadica. Se l’obiettivo era cavalcare l’onda del true crime in stile Netflix… be’, diciamo che è venuta fuori la versione pirata tarocca, con i sottotitoli in albanese sbagliati.
 E allora via con le interviste ai mostri: domande “dure”, certo, ma così drammaticamente infiocchettate da sembrare parte di un reality show in cui i criminali vincono un premio se piangono davanti alla camera. Manca solo Signorini in regia e siamo a posto.

 Giornalismo? No, è Netflix versione discount Il problema non è parlare di crimini, sia chiaro. È farlo così: con lo stesso tatto con cui una ruspa accarezza un bonsai. Belve Crime non informa: spettacolarizza. Confeziona il male umano come intrattenimento da divano, con voiceover solenni che sembrano usciti da Chi l’ha visto? sotto acido e grafiche da PowerPoint del 2003.

Nel grande zoo della televisione italiana, Belve ormai è solo una gabbia vuota con l’eco di ciò che voleva essere. E Belve Crime? Una fiera dell’orrore travestita da servizio pubblico. Ma ehi, finché lo share sale, chi se ne frega della dignità, no?


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