461 Ocean Boulevard: l’album che salvò Clapton da se stesso
All’inizio degli anni ’70 Eric Clapton era il guitar hero più famoso del pianeta. I muri di Londra lo consacravano con la scritta “Clapton is God”, e la sua chitarra incendiava tutto ciò che toccava: i Cream, Blind Faith, fino al colpo di genio disperato di Layla and Other Assorted Love Songs con i Derek and the Dominos. Sembrava un uomo destinato a rimanere immortale. Invece, a 25 anni appena, spegne la luce, si ritira dalle scene e precipita in un abisso autodistruttivo fatto di alcool ed eroina.
La morte di Duane Allman nel 1971, amico e fratello musicale nei Dominos, è un colpo mortale. Ma non basta: la sua ossessione per Pattie Boyd, moglie di George Harrison, lo consuma. Layla era stata la sua lettera d’amore disperata, ma quella relazione tormentata e clandestina, unita al senso di colpa verso l’amico Harrison, lo lascia svuotato. Clapton smette di suonare, smette di scrivere, smette quasi di vivere. Si barrica a Hurtwood Edge, la sua villa inglese, e passa tre anni come un fantasma, con la siringa come unico compagno.
Quando tutto sembra perso, a gennaio 1973 un gruppo di amici lo strappa all’oscurità. Pete Townshend organizza il Rainbow Concert a Londra: sul palco ci sono Steve Winwood, Ronnie Wood, Jim Capaldi, tutti lì per sostenere Eric. È la prima scossa: Clapton si rende conto che c’è ancora un pubblico che lo aspetta. Non è ancora guarito, ma la scintilla è accesa.
Il passo successivo lo fa il suo manager Robert Stigwood. Sa che a Londra Eric rischia di ricadere subito nell’abisso. Così lo spedisce in Florida, lontano dalle tentazioni, in uno studio che conosce bene: i Criteria Studios di Miami. Qui Tom Dowd, il produttore che aveva già plasmato Layla, lo accoglie con una nuova squadra di musicisti americani pronti a sostenerlo: Carl Radle al basso, Jamie Oldaker alla batteria, Dick Sims alle tastiere, George Terry alla chitarra ritmica e la voce calda di Yvonne Elliman ai cori.
Clapton prende in affitto una villa a 461 Ocean Boulevard, Golden Beach. Il titolo dell’album nascerà da lì: un indirizzo, un luogo di ripartenza, quasi un rifugio. E, soprattutto, un simbolo di rinascita.
Le sessioni iniziano nell’aprile del 1974. Clapton non vuole più essere il “dio della chitarra”, l’uomo degli assoli infiniti e delle jam devastanti. Non gli interessa più dimostrare niente. Vuole solo fare musica che abbia un’anima, che sia onesta, semplice, viva. La sua Stratocaster “Blackie” non urla più, ma respira, parla con calma, accarezza invece di strappare.
In questo clima nasce un disco sorprendente. Brani originali come “Let It Grow” e “Give Me Strength” mostrano un Clapton diverso, più maturo, intimo, capace di scrivere canzoni vere oltre i riff. Le cover raccontano la sua radice blues (Steady Rollin’ Man di Robert Johnson, Can’t Hold Out di Elmore James), ma anche il desiderio di aprirsi a suoni nuovi. E qui arriva l’intuizione decisiva: George Terry propone di registrare “I Shot the Sheriff” di Bob Marley. Eric è titubante, teme di non renderle giustizia, ma la incide. Risultato? Il brano vola al numero uno della Billboard, porta il reggae al grande pubblico mondiale e trascina l’album in cima alle classifiche.
Quando 461 Ocean Boulevard esce nell’estate del 1974, Clapton non è più l’eroe maledetto dei Cream né il romantico disperato di Layla. È un uomo sopravvissuto, che ha scelto la musica come terapia e come via di ritorno alla vita. Non c’è più la furia, c’è la calma. Non c’è più il mito, c’è la sostanza. Il disco arriva al numero uno negli Stati Uniti, consacra Eric come artista “popolare” nel senso più alto del termine, e soprattutto gli restituisce una carriera.
461 Ocean Boulevard non è l’album più virtuoso di Clapton, ma è forse il più importante. È il suono di una resurrezione. È il momento in cui un dio caduto si rialza e torna uomo, e proprio così trova la sua vera grandezza.

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