Jon Hassell – Il cartografo del suono alieno
Nel luglio 2009 usciva Last Night the Moon Came Dropping Its Clothes in the Street, un album che non sembrava composto da musicisti, ma da esseri traslucidi discesi da una dimensione parallela.
Non un disco, ma un’esperienza sonora totale: fluida, mistica, spettrale, inafferrabile.
Era il compimento di un percorso che Jon Hassell inseguiva da tutta la vita — quello che lui stesso aveva chiamato Fourth World Music, una musica “tra il futuro e l’antichità, tra l’Occidente ipertecnologico e l’invisibile Sud globale”.
Il cartografo dell’inudibile
Jon Hassell è stato il contrario del musicista pop.
Non gli interessava arrivare al pubblico, aspettava che il pubblico fosse pronto ad arrivare da lui.
Trombettista, compositore, filosofo sonoro, sciamano laico: impossibile incasellarlo.
Ha studiato con Stockhausen, ha collaborato con Eno, ma ha sempre camminato da solo, tracciando mappe acustiche in territori dove nessuno sapeva che si poteva andare.
Dove finisce l'etnomusicologia e comincia la fantascienza? Dove l’improvvisazione diventa architettura?
La risposta di Hassell è sempre stata musicale, mai teorica.
Le sue composizioni sono ambienti viventi.
Musica per stati mentali alterati senza sostanze, per visioni senza occhi.
Una vita a costruire il proprio linguaggio
Nel 1977 pubblica Vernal Equinox — ed è subito chiaro che non siamo davanti a un jazzista.
Lì già c’è tutto: il bordone ambientale, la tromba filtrata, il senso del rituale sonoro.
Poi arrivano Dream Theory in Malaya (1981) e Power Spot (1986), dove l’elettronica incontra le percussioni etniche come se fosse l’unica cosa logica da fare.
Non cita mondi lontani: li reinventa.
Non ruba suoni tribali: li sogna.
E mentre il mondo correva verso la world music da salotto, lui costruiva musica per un mondo che ancora non esisteva.
Un mondo ibrido, sincretico, pre-linguistico.
Una civiltà sonora postumana e precoloniale allo stesso tempo.
Il vertice sonoro: Last Night…
Con Last Night the Moon… (ECM, 2009), tutto si allinea.
Prodotto con Jan Bang, con la complicità di Eivind Aarset, Rick Cox e una manciata di altri alchimisti del suono, l’album suona come un ecosistema autonomo.
Ogni traccia è un organismo vivente: droni che respirano, trombe che parlano lingue dimenticate, campioni che si scompongono come insetti nell’aria.
Aurora è un’astronave che si scioglie nella luce.
Blue Period è il momento in cui il cielo suona.
Time and Place è ciò che resta quando spazio e tempo si fondono.
E poi c’è la tromba di Hassell, la vera protagonista silenziosa:
non strilla, non svetta, sussurra, sospira, si dissolve.
Una voce senza ego, che non suona sopra la musica, ma dentro il paesaggio.
Oltre il tempo e l’industria
Nel 2009, mentre il resto del mondo era occupato a campionare Eno in post-produzioni da pubblicità della Apple, Hassell metteva sul piatto un disco inclassificabile, che ancora oggi non sembra avere un luogo preciso nella discografia di nessun genere.
Non è ambient.
Non è jazz.
Non è elettronica.
È Fourth World: quella terra che esiste solo quando la si ascolta.
L’eredità di un artista invisibile
Jon Hassell è morto nel 2021.
In vita non ha mai avuto davvero il pubblico che meritava.
Forse perché la sua musica richiede tempo, silenzio, ascolto profondo.
E questo, nel nostro tempo, è già un atto rivoluzionario.
Ma la sua influenza è ovunque.
Nei suoni di Eivind Aarset, nei processi in tempo reale di Jan Bang, nelle derive liquide di Arve Henriksen, nelle musiche di Arrival, nei paesaggi interstellari di Jóhann Jóhannsson, in ogni disco che sceglie di creare un mondo invece di descriverlo.
Conclusione
Last Night the Moon Came Dropping Its Clothes in the Street non è l’ultimo grande disco di Jon Hassell.
È il primo di un altro mondo che abbiamo appena cominciato a scoprire.
E che, come tutto ciò che è sacro e fragile, va protetto dall’oblio.
Mettilo in cuffia. Spegni le luci.
E lascia che il mondo finalmente ti parli con una voce che avevi dimenticato.

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