La realtà non è per tutti


Magritte


C’è un’osservazione che ritorna, ostinata e scomoda, ogni volta che si prova a guardare la condizione umana senza schermi, senza orpelli. La formula fu incisa da Blaise Pascal nel Seicento, con una semplicità che non ha bisogno di commento:

“Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa: dal non saper restare tranquilli in una stanza.”

Non parlava di guerre. Non parlava di fame, né di miseria sociale o catastrofi naturali. Pascal mirava più in basso. O forse più in alto. In ogni caso, più dentro. Aveva colto un paradosso: siamo creature pensanti, ma non sopportiamo il pensiero senza distrazioni. Siamo dotati di coscienza, ma è proprio quella coscienza — del tempo, della morte, del vuoto — a tormentarci. Siamo liberi, ma paghiamo la libertà con l’angoscia.

Ecco allora il divertissement: un meccanismo di difesa psicologica, sociale, antropologica. Un’armatura fatta di piccole urgenze quotidiane, scadenze, giochi, chiacchiere, feste, polemiche, riti, affanni. Oggi li chiamiamo Netflix, social network, app di incontri, notifiche push. Si potrebbe dire che l’intera economia dell’attenzione moderna è la forma algoritmica del pensiero di Pascal: un sistema perfetto per non lasciarci mai da soli con noi stessi.

In fondo, è come se l’essere umano avesse paura di se stesso. Di ciò che scoprirebbe nella stanza vuota, quando tutte le voci si spengono, quando nessuno ci guarda, e il rumore del mondo non arriva più a coprire il fruscio dei nostri pensieri. E cosa trova l’uomo in quella stanza? Pascal lo dice con candore spietato: trova il vuoto, la caducità, la morte.

Ma se Pascal affondava le mani in questa disperazione per poi cercare rifugio nella fede cristiana — la sola ancora, per lui, contro l’abisso — i pensatori successivi hanno scelto vie diverse. Alcuni hanno negato l’abisso, altri lo hanno attraversato senza mappe.

Un giorno, secoli dopo, Winston Churchill scriverà che

“L’uomo inciampa nella verità, ma la maggior parte delle volte si rialza e continua come se nulla fosse.”

La frase ha un’aria di battuta, ma è un piccolo trattato di antropologia morale. È come se Churchill avesse ereditato il pensiero pascaliano e l’avesse spogliato da ogni teologia, riconoscendo un tratto costante del nostro carattere: la fuga sistematica dalla verità. Anche quando essa ci si para davanti in modo evidente — sotto forma di errore, di delitto, di ingiustizia, di fragilità — preferiamo ignorarla, voltarci altrove, riprendere la corsa verso qualunque forma di distrazione disponibile.

Nel nostro tempo, questa corsa ha preso la forma della iperconnessione, ma il meccanismo è lo stesso. L’orrore non è più la peste o l’inferno: è la noia. La sospensione. Il momento in cui si spegne lo schermo, e resta il silenzio. Quella soglia, quella fessura nel ritmo, è oggi la più temuta. Perché lì, forse, potremmo scoprire chi siamo.

La stessa idea ritorna in una delle tradizioni spirituali più lontane dalla cultura giudaico-cristiana: lo Zen buddhista. Anche lì, si parte dallo stesso presupposto: la mente, se lasciata a se stessa, corre ovunque, salta come una scimmia impazzita da un ramo all’altro del pensiero. E proprio per questo, nella pratica meditativa zen, si insegna a stare. A respirare. A tornare al momento. Non per trovare qualcosa, ma per non fuggire più. È la stessa stanza di Pascal, ma senza Dio. Un vuoto abitato non dall’orrore, ma dalla possibilità.

Il paradosso è che mentre lo Zen vede il vuoto come potenzialità e apertura, Pascal vi legge miseria e condanna. Dove lo Zen trova l’illuminazione, lui trova la prova della necessità della fede. Eppure entrambi condividono la diagnosi: l’uomo non regge la stanza.

Nel Novecento, questo pensiero viene portato alle estreme conseguenze da un filosofo che oggi, forse, si studia meno di quanto si dovrebbe. Jean-Paul Sartre. Il suo messaggio non ha nulla di accogliente:

“L’uomo è condannato a essere libero.”

Condannato. La parola è scelta con cura. Senza Dio, senza struttura, senza verità rivelate, ogni uomo è costretto a inventare se stesso, scegliere senza una guida, agire senza garanzie. La libertà radicale è il contrario del sollievo. È l’angoscia del vuoto che ritorna, ma senza la scialuppa di salvataggio della grazia. Sartre non vuole consolare. Vuole risvegliare. Per questo disturba. E per questo, nel nostro mondo iperconnesso e ipersensibile, tende a essere dimenticato: non accarezza, non protegge, non seduce. È il filosofo della stanza chiusa, dove non c’è niente da guardare se non lo specchio.

Lo stesso schema si ripete nella scienza, anche quando sembra non occuparsene. Stephen Hawking, con il suo garbo paradossale, ha tolto una delle ultime stampelle rimaste:

“L’universo non ha bisogno di un creatore.”

Non è una dichiarazione ideologica. È una constatazione fisica. Esistono leggi che descrivono l’origine del cosmo senza chiamare in causa una volontà superiore. Basta questo. La conclusione non è aggressiva, ma è definitiva. E, come Pascal, Hawking non ci dà carezze. Ci lascia da soli con le leggi della fisica e l’idea che, in fondo, l’universo potrebbe benissimo non accorgersi mai che ci siamo.

Ma, di nuovo, c’è chi cerca una via diversa. Carl Gustav Jung, ad esempio, non rinuncia alla dimensione del mistero, ma la riabilita senza trasformarla in dogma. La sua teoria della sincronicità — legami significativi tra eventi senza nesso causale — apre uno spazio nuovo: quello di una spiritualità laica. Non ti dice cosa credere, ma ti suggerisce che c’è qualcosa che vibra tra psiche e mondo. Nessun manuale, nessuna religione. Solo l’invito a restare aperti. A non chiudere troppo in fretta le domande.

Poi ci sono gli eretici moderni. Quelli che saltano ogni passaggio e arrivano dritti al punto. Bobby Fischer, genio tormentato degli scacchi, negli ultimi anni della sua vita, rifugiato in Islanda, liquidava tutto con una frase secca:

“It’s all bullshit.”

Aveva letto, studiato, cercato. Aveva attraversato la Bibbia, l’occultismo, la paranoia geopolitica. Ma alla fine scartava ogni cosa come favola inutile. Per lui, il senso era una trappola. L’unico gesto sensato, come sulla scacchiera, era sacrificare la Regina — cioè: rifiutare ogni verità confezionata.

John Lennon, da par suo, cantava la stessa intuizione con la dolcezza di una melodia:

“Imagine no religion.”

La sua era una liberazione globale, quasi mistica: togliere tutto ciò che ci divide e ci protegge. Lasciare l’umanità nuda nel suo stesso sogno. Quella canzone è diventata un inno, ma se la si ascolta bene è un colpo di spugna. Un’utopia o un’apocalisse, a seconda di come la si guarda.

Nel frattempo, la scienza ha proseguito il suo percorso di decentramento progressivo:

  • Copernico ci ha tolti dal centro dell’universo.

  • Darwin ci ha tolti dal trono della creazione.

  • Hubble ci ha mostrato che la nostra galassia è una fra miliardi.

  • E oggi, tra teorie del multiverso e ipotesi sull’universo nato da un buco nero, ogni punto fermo sembra dissolversi.

A ogni passo, meno senso garantito. Meno certezze. Più silenzio. E noi, come bambini che hanno perso il peluche, corriamo a cercare qualcosa che ci calmi. Credenze, ideologie, teorie del complotto, fedi ritagliate su misura. Qualunque cosa pur di non restare nella stanza.

E allora? Che resta? Forse proprio quella stanza, come luogo simbolico, è la sfida più grande della nostra epoca. Non la fede, né la scienza. Non l’ideologia, né il disincanto. Ma la capacità di non fuggire. Di restare. Di respirare. Di non afferrare subito il telefono, né la preghiera, né l’alibi. Solo restare.

Pascal lo intuiva. Lo Zen lo pratica. Sartre lo impone. Hawking lo lascia in silenzio. Jung lo sussurra. Fischer lo distrugge. Lennon lo canta.

Il messaggio, da secoli, è lo stesso:
L’uomo non sa stare in silenzio, da solo, in una stanza.
E forse è proprio lì che inizia tutto ciò che conta davvero.

Il Rumore come Anestesia del Sacro

Con Arthur C. Clarke, la spiritualità post-religiosa, e il silenzio impossibile dell’uomo moderno

“Politica e religione sono obsolete. Sostituiamole con la scienza e la spiritualità.”
Arthur C. Clarke

Arthur C. Clarke non era un filosofo, né un teologo. E proprio per questo, certe sue frasi suonano più potenti di mille trattati. Non parlava per difendere un sistema, né per imporre una dottrina: diceva quello che vedeva. E quando Clarke afferma che politica e religione sono obsolete, non è l’ennesima provocazione laica, ma una diagnosi su qualcosa che è già successo sotto i nostri occhi: le grandi narrazioni non reggono più. I loro linguaggi, i loro rituali, le loro promesse si sono svuotati, inghiottiti da un rumore di fondo che cresce giorno dopo giorno.

Il rumore, oggi, è la nuova atmosfera. Non lo notiamo nemmeno più. Siamo immersi in flussi continui di parole, immagini, suoni, stimoli. Ogni secondo, ogni gesto, ogni pensiero, se non è colonizzato da qualche segnale esterno, ci mette a disagio. È quasi come se il silenzio, ormai, fosse un difetto di sistema. Un glitch.

Ma questo rumore, per quanto superficiale, non è neutro. Ha una funzione precisa: anestetizzare il sacro. O, per dirla in modo più laico: impedirci di percepire quel fondo abissale e misterioso dell’esperienza umana che un tempo chiamavamo “sacro” — quella dimensione verticale, inspiegabile, spesso inquietante, che ci metteva in contatto con qualcosa che eccede noi stessi.

Il sacro come esperienza, non come dottrina

Clarke, in realtà, non propone di eliminare il sacro. Tutt’altro. Vuole liberarlo. Vuole salvarlo dalle sue incrostazioni: i dogmi, le guerre, le etichette, le gerarchie. La religione — come istituzione, come potere, come ideologia — per Clarke è finita. Ma la sete spirituale no. Anzi, è forse l’unica cosa rimasta viva, anche se malnutrita, compressa, ridicolizzata.

La scienza, per lui, non è un sostituto della religione, ma una via d’accesso nuova al mistero. Un metodo che ci disarma, che ci costringe a deporre le stampelle della superstizione, ma che allo stesso tempo ci apre a una meraviglia radicale. Non più miracoli, ma leggi. Non più profezie, ma complessità. Eppure, il senso di vertigine è lo stesso.

“Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia.”
Arthur C. Clarke

Forse il sacro non è mai stato questione di dèi o altari, ma di sguardo. Di capacità di non distrarsi. Di accorgersi. Ecco allora che il rumore non è solo fastidio: è una strategia difensiva. Ci protegge dal sacro perché ne abbiamo paura.

Distrazioni totali: anestesia come sistema

In un mondo dove ogni attimo può essere riempito — con uno scroll, un video, una notifica, un acquisto, una polemica — il problema non è più l’assenza di senso, ma l’impossibilità di accorgersene.

Viviamo disconnessi dalla disconnessione.

Abbiamo creato un ecosistema che ci impedisce attivamente di stare nel vuoto, di ascoltare il silenzio, di confrontarci con la domanda fondamentale: “perché c’è qualcosa piuttosto che niente?” Una domanda così semplice e spaventosa che oggi, anziché discuterla in un caffè filosofico, la scrolliamo via su Instagram in 0,8 secondi.

Nel frattempo, la religione — quella ufficiale — è spesso diventata un altro rumore di fondo. Una macchina rituale che ripete formule, rassicura, mobilita, ma non ascolta più. E la politica, dall’altra parte, è spesso ridotta a branding, reattività, storytelling da 280 caratteri. In entrambi i casi, il contatto col sacro è evaporato.

Il sacro non è conforto

Ma attenzione: il sacro non è sinonimo di consolazione. Non è una coperta, né un balsamo. È un’esperienza scomoda, spesso spaventosa, a volte devastante. Rudolf Otto, in Il sacro, la definiva come “mysterium tremendum et fascinans”: un mistero che attrae e terrorizza. Ecco perché lo evitiamo. Non è soft. Non è zen da centro benessere. È sublime, nel senso originario: qualcosa che ti sovrasta, che ti lascia muto.

Ecco perché il rumore è così utile. Fa da tampone ontologico. Interrompe ogni processo verticale. Non ti lascia mai solo abbastanza a lungo da sentire il fremito del mistero. Ti distrae, ti intrattiene, ti protegge. Il rumore è lo scudo perfetto contro il sacro. Il sacro, per manifestarsi, ha bisogno di silenzio.

Spiritualità senza religione

Clarke, in anticipo sui tempi, intuiva che la vera rivoluzione non sarebbe stata un ritorno al passato, né un’utopia futurista. Sarebbe stata una spiritualità senza religione, una capacità di stare dentro il mistero senza per forza masticarlo in una dottrina.

È quello che oggi alcuni chiamano spiritualità secolare. Non una fede, ma un atteggiamento. Una disponibilità. Una cura dell’attenzione. Un esercizio dello stupore. Uno sguardo contemplativo rivolto al cosmo, alla complessità, all’interiorità. È l’eredità di Einstein che diceva:

“La più bella e profonda esperienza che possiamo provare è il senso del mistero. È la sorgente di ogni vera arte e scienza.”

Non serve un altare, né una liturgia. Basta il coraggio di stare in silenzio. Basta chiudere gli occhi, e non fare subito tap. Basta restare un secondo di più nel buio della stanza.

In conclusione: il mistero come esercizio

Forse l’unica vera pratica spirituale del nostro tempo è sottrattiva: meno rumore, meno contenuti, meno risposte. Non un nuovo culto, ma una nuova capacità di sopportare il mistero. Non scappare, non cliccare, non chiudere la finestra. Rimanere aperti. Rimanere nella domanda.

Pascal aveva ragione. La nostra infelicità nasce dalla fuga. Ma Clarke rilancia: forse la via d’uscita non è tornare a religioni fossilizzate, né rifugiarsi in ideologie politiche. Forse la via d’uscita è immaginare una scienza che non spieghi tutto, ma che ci accompagni fino al bordo dell’inspiegabile. E lì, nel vuoto, imparare a non fuggire. A non chiudere la porta.

A restare nella stanza. E finalmente, a tacere.

Il Ritorno del Mito nell’Era Post-Razionale

L’umanità iperconnessa e il bisogno antico del sacro spiegato

A guardare il nostro tempo da una certa distanza, il paesaggio potrebbe sembrare paradossale. Abbiamo raggiunto livelli altissimi di alfabetizzazione scientifica, di accesso all’informazione, di trasparenza tecnologica. Possediamo intelligenze artificiali capaci di scrivere testi, dipingere quadri, prevedere sequenze proteiche e generare voci digitali indistinguibili da quelle umane. Viviamo immersi in dati, codici, metriche, simulazioni.

Eppure, mai come ora, i miti più arcaici sembrano tornati a galla. Non i miti intesi come favole educative o parabole simboliche — ma miti trasformati in verità dogmatiche, blindate, aggressive, difensive. Come se, di fronte all’enormità del mondo, la ragione fosse scivolata via senza far rumore, e in quel vuoto si fosse infilato di nuovo il bisogno del dogma.

Non importa quanto la scienza spieghi. Non importa quanto le prove dicano il contrario. Le credenze si riformano, si irrigidiscono, si moltiplicano. Non siamo più nell’epoca della razionalità trionfante, se mai lo siamo stati. Siamo nell’era post-razionale: dove la ragione è un’opzione tra le tante — una lente, ma non necessariamente la più usata.

Il mito come funzione, non come errore

Per comprenderlo, bisogna prima rimettere a fuoco cosa sia un mito. Non è una bugia. Non è un errore della mente primitiva. Il mito è una funzione della psiche: serve a dare forma, volto, ritmo a ciò che non riusciamo a gestire con i soli strumenti dell’analisi. Non è ciò che spiega, ma ciò che conferisce significato.

Quando l’universo diventa troppo grande, quando la vita perde contorni, quando il tempo si disgrega in notifiche, il mito ritorna come struttura protettiva. Dà un prima e un dopo. Un dentro e un fuori. Un senso. Una morale. Una tribù.

Ecco perché, in un’epoca di iper-complessità, i miti rinascono. Perché il pensiero razionale non consola. La scienza non accarezza. La verità, quando è nuda, non piace. Quello che vogliamo, in fondo, è una storia in cui credere.

Come notava Carl Jung:

“L’uomo non può sopportare un’esistenza priva di significato.”
E se il significato non lo troviamo, ce lo inventiamo.

Dogmi per un mondo liquido

Ma c’è un salto ulteriore. Il mito, oggi, non è solo narrazione. È spesso dogma tribale. Un’arma. Una bandiera identitaria. I miti contemporanei non chiedono comprensione: chiedono fedeltà. Non offrono una chiave di lettura: offrono un passaporto, un’appartenenza, una rete di protezione esistenziale.

Questo spiega il ritorno violento delle teorie del complotto, il fascino del pensiero magico, il rigurgito di fondamentalismi religiosi, il culto della verità alternativa. Ma anche la proliferazione di comunità ideologiche chiuse, incapaci di tollerare il dissenso. Che si tratti di una credenza spirituale, di un’identità politica, di una narrazione storica, il tratto comune è sempre quello: il bisogno di una certezza non negoziabile.

In una realtà liquida, la fede cieca è la nuova ancora.

Razionalità come eccezione, non regola

C’è un altro malinteso da sciogliere: l’idea che la razionalità sia lo stato naturale della mente. Non lo è. La razionalità è un’abilità addestrata, fragile, contronatura. Il cervello umano non è fatto per valutare statistiche, per accettare ambiguità, per convivere con la complessità senza reagire.

Il pensiero critico è un muscolo. E come ogni muscolo, si atrofizza se non esercitato. E oggi, forse, è proprio questo che è successo. Schiacciati da flussi infiniti di informazione, incapaci di filtrare, di decelerare, di discernere, abbiamo disattivato la lente critica, e siamo tornati a uno stadio più antico: quello del bisogno di credere, più che di capire.

“Quando la mente razionale si stanca, il mito prende il sopravvento.”

L’illusione del controllo e il prezzo della verità

Nel mito c’è qualcosa di seduttivo: la promessa di un ordine segreto, di una volontà nascosta, di una spiegazione assoluta. Qualcosa o qualcuno che governa gli eventi. Che li tiene insieme. È l’illusione del controllo.

Il mondo spiegato dalla scienza, al contrario, è spesso indifferente. Non ci ascolta. Non ci protegge. Non ci promette salvezza. In un certo senso, la verità fa più male della menzogna. È più dura da digerire. È meno “umana”.

E allora si torna indietro. Si riscoprono le “energie cosmiche”, le “vibrazioni”, le “verità perdute”, le “manipolazioni globali”, le “rivelazioni profetiche”. Non importa che siano assurde. Importa che diano senso.

Non è ignoranza. È fame di orientamento. Fame di simboli. Fame di qualcosa che dica: “il tuo dolore non è casuale. Il tuo caos ha un disegno.”

Miti 2.0: la forma cambia, la funzione resta

Certo, i miti di oggi non hanno più gli dèi del pantheon greco o le saghe bibliche. Hanno preso forme nuove:

  • I supereroi, con le loro origini traumatiche e i poteri come segni del destino.

  • I leader carismatici, trattati come semidei moderni.

  • Le ideologie digitali, dove ogni post è un versetto.

  • Gli algoritmi, visti come oracoli.

  • Il metaverso, come nuova cosmologia.

Persino la Silicon Valley è un laboratorio mitologico. Elon Musk che manda l’umanità su Marte; il transumanesimo che promette l’immortalità; le intelligenze artificiali come nouveau démiurges. Sono tecnomiti, ma rispondono allo stesso bisogno di fondo: credere in qualcosa di più grande, di più potente, di più ordinato del caos.

Il problema non è il mito. È quando diventa idolo

In tutto questo, il problema non è il mito in sé. Il mito, se riconosciuto come linguaggio simbolico, può essere una forma altissima di verità. Può aprire, suggerire, far riflettere. Il problema nasce quando il mito viene scambiato per realtà, quando si trasforma in idolo, in assoluto, in arma.

Quando il mito smette di evocare e inizia a imporre.

Quando non ti lascia più domande, ma solo risposte. Quando ti chiede fedeltà, invece che dubbio. Quando ti isola, ti irrigidisce, ti fa odiare l’altro — il miscredente, l’infedele, lo scettico.

Allora il mito diventa dogma, e il dogma diventa tribù. E la tribù, come sempre, ha bisogno di un nemico.

In cerca di nuovi alfabeti del senso

Che fare, allora? Abbandonare ogni credenza? Tornare al silenzio assoluto? Rinunciare al senso? No. Sarebbe solo un’altra forma di dogma.

Forse la sfida è immaginare nuovi alfabeti del senso. Forme di spiritualità non autoritaria. Narrazioni che non siano prigioni. Simboli che non diventino macigni.

Arthur C. Clarke ci offriva un’indicazione:

“Sostituire religione e politica con scienza e spiritualità.”

Una spiritualità senza idoli. Una scienza senza arroganza. Un modo di vivere aperto al mistero, ma senza doverlo colonizzare.

Forse l’unica vera rivoluzione del nostro tempo sarà imparare a credere senza creduloneria, a pensare senza cinismo, a narrare senza mentire.

Nel frattempo, la stanza resta lì. Silenziosa. Vuota. Pronta ad accogliere chi trova il coraggio di entrarvi senza portare con sé un idolo da pregare o un dogma da difendere.


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