Nguyên Lê: alchimista della chitarra tra mondi e culture



Nguyen Le Homescape



Nguyên Lê è un personaggio atipico: nato a Parigi nel 1959 da genitori vietnamiti, figlio della diaspora, ha sempre vissuto al crocevia fra culture. Non è il classico chitarrista “shredder” da vetrina: la sua cifra è un continuo intrecciare jazz fusion, rock elettrico alla Hendrix, melodie tradizionali asiatiche e collaborazioni con musicisti provenienti da Africa, India e Medio Oriente. La contaminazione è il suo pane quotidiano, sostenuta da una mano chitarristica notevole: fraseggio fluidissimo, uso massiccio di suoni saturi e ambienti digitali, senza mai staccarsi dalla matrice jazzistica.

L’ho incontrato con Paolo Fresu nel 2007 a Modena, in occasione di un seminario-concerto, e ho avuto modo di intervistarlo a lungo: fra chitarre, effetti e visioni musicali. In quel periodo aveva appena pubblicato Homescape, registrato nel suo home studio parigino. Qualche anno prima lo avevo visto dal vivo nel tour legato a Purple – Celebrating Jimi Hendrix (1997): lì dimostrava di non essere solo un intellettuale da conservatorio, ma un musicista capace di sporcarsi le mani col mito elettrico per eccellenza, e farlo con personalità.

Homescape è un disco che sembra piccolo e invece è enorme. Registrato nel salotto di Nguyên Lê, con strumenti, pedali e computer sparsi come in un laboratorio alchemico, dimostra che non serve uno studio da milioni di euro per scolpire un suono che resta dentro. È intimo ma non domestico: un album da stanza che spalanca finestre sull’oceano.

La parola chiave è respirazione collettiva. Qui non c’è un leader e due ospiti: Lê, Fresu e Dhafer Youssef sono tre antenne che captano frequenze diverse e le fanno risuonare insieme. La chitarra non è mai solo chitarra, ma anche sintetizzatore, tappeto, scultura sonora; la tromba di Fresu è lirismo sospeso e fragile, carico di echi elettronici; la voce e l’oud di Youssef sono l’elemento rituale, capaci di trasformare la stanza in moschea, deserto e cielo notturno allo stesso tempo.

Non è un disco di “brani”, ma di paesaggi sonori: ogni traccia è un ambiente, un luogo mentale. È musica che non vuole farti muovere il piede, ma fluttuare fuori dal tempo. E funziona, perché invece di scivolare nella new age zuccherosa, resta viva, irregolare, con improvvisazioni autentiche.

È l’album che racconta meglio il Nguyên Lê visionario: meno legato alle radici culturali specifiche (Tales from Viêt-Nam), meno rockeggiante (Purple), ma immerso nell’idea della musica come linguaggio universale e spirituale.

Nguyên Lê è un chitarrista che si muove al confine tra jazz e musiche tradizionali, tra rock elettrico e spiritualità modale, tra ricerca elettronica e intimità acustica. Non è mai stato “solo” un jazzista né un world musician di maniera: il suo linguaggio vive nella tensione continua fra poli opposti.

Da un lato ha la disciplina e la libertà improvvisativa del jazz, dall’altro porta dentro i colori delle radici vietnamite e di molte altre culture, dal Maghreb all’India. Da Hendrix ha ereditato il gusto per il suono saturo e fisico, ma lo innesta in architetture ipnotiche che richiamano i bordoni orientali più che i riff rock. Nei suoi lavori la chitarra non costruisce progressioni armoniche classiche, ma paesaggi sospesi dove si intrecciano lirismo, improvvisazione e colore timbrico. E quando aggiunge l’elettronica, non la usa come gadget, ma come tela invisibile su cui dipingere gli incontri.

Nguyên Lê ha saputo costruire la sua identità negli interstizi, trasformando ogni confine in un luogo fertile: fra Oriente e Occidente, fra composizione e improvvisazione, fra memoria e avventura cosmopolita. Un indicazione di viaggio molto utile a rappresentare la modernità e la dimensione globale dell'arte. 


Nguyên Lê: electric, acoustic, fretless, synth, e-bow, vietnamese guitars; computer programming & electronics
Paolo Fresu: trumpet, flugelhorn & electronics
Dhafer Youssef: oud, vocals & electronics

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