Turismo, il nostro “petrolio” sprecato: fra retorica e chiacchere



Turismo a Venezia



Trump usa i dazi. Putin il gas. I cinesi proteggono i microchip come fosse oro.
E l’Italia? L’Italia ha il più grande giacimento di cultura, arte, paesaggio e lifestyle del pianeta. Non è retorica: lo dicono l’UNESCO, gli economisti del turismo, le code davanti ai nostri monumenti. È un “petrolio” infinito, che ogni anno attrae decine di milioni di visitatori da tutto il mondo.

Ma c’è un paradosso: mentre altri Paesi monetizzano il turismo come risorsa strategica nazionale, l’Italia continua a trattarlo come fosse un’ospite da coccolare… gratis. Le città collassano, i residenti fuggono, i costi esplodono. Eppure anche solo proporre una tassa nazionale d’ingresso per i turisti — diciamo fra i 60 o 100 euro — fa scattare il riflesso pavloviano del “eh ma poi non viene più nessuno”.

Il problema? Siamo seduti su un bancomat e fingiamo di non vederlo.


La Nuova Zelanda lo fa già (e non ha Roma, Firenze o Venezia)

Partiamo da un esempio concreto. Dal 2019, chiunque voglia visitare la Nuova Zelanda deve pagare una tassa turistica nazionale, chiamata IVL (International Visitor Conservation and Tourism Levy). Dal 1° ottobre 2024, l’importo sarà aumentato a 100 NZD — circa 60–65 euro — da versare insieme al visto o all'autorizzazione elettronica d’ingresso.

L’obiettivo è semplice: far sì che i turisti contribuiscano concretamente alla conservazione dell’ambiente, delle infrastrutture e del patrimonio culturale neozelandese.
Chi è escluso? Residenti, studenti, viaggiatori business, cittadini dei Paesi del Pacifico. Tutti gli altri, pagano. Nessuno si scandalizza. Nessuno smette di andarci.

Ora fermiamoci un attimo. La Nuova Zelanda è un Paese bellissimo, ma non ha Roma. Non ha Pompei. Non ha Venezia, Firenze o Matera. Non ha il Colosseo, la Costiera Amalfitana o il Rinascimento. Eppure, fa pagare 60 euro a ogni turista. E incassa.


Cosa succederebbe se l’Italia facesse lo stesso?

Facciamo due conti. Nel 2023, l’Italia ha accolto circa 65 milioni di turisti internazionali. Escludendo chi viene per affari, studio o salute, restano circa 55 milioni di turisti puri.

Ora immaginiamo di applicare un modello simile a quello neozelandese:

Modello ipoteticoImportoGettito stimato
Tassa ingresso 60 €60 €3,3 miliardi €/anno
Tassa ingresso 100 €100 €5,5 miliardi €/anno
Schema “soft” 30–60 €mix2–2,5 miliardi €/anno

Per confronto: tutta la tassa di soggiorno attuale, raccolta dai comuni italiani, vale circa 600 milioni di euro all’anno. Una tassa nazionale all’ingresso moltiplicherebbe il gettito per 5–10 volte, con la differenza che i fondi andrebbero all’erario centrale, e non sparsi a macchia di leopardo tra i comuni.

Con 3 miliardi l’anno potresti:

  • Restaurare decine di siti archeologici abbandonati

  • Potenziare trasporti e accessibilità ai borghi

  • Coprire il fabbisogno culturale del Mezzogiorno

  • Finanziare scuole nei centri storici desertificati

  • Ristrutturare patrimonio edilizio in chiave culturale

Non stiamo parlando di tassare i cittadini. Stiamo parlando di chiedere un contributo minimo a chi sceglie di venire nel Paese più bello (e più fragile) del mondo.


“Ma il turista poi non viene più…”

Questa è l’obiezione più frequente. Eppure, non regge alla prova dei dati. Pensiamoci:

  • Un turista giapponese spende oltre 3.000 euro per un viaggio in Italia. Davvero si spaventa per una tassa da 60 euro?

  • Un americano, tra voli intercontinentali, hotel, musei e cibo, supera facilmente i 4.000 euro. Una tassa di 100 euro pesa meno del 3% del costo totale.

  • Anche chi viene da più vicino (Germania, Francia, UK), se resta più giorni, non avrebbe difficoltà ad assorbirla.

E poi: in decine di Paesi — Croazia, Indonesia, Svizzera, Islanda — ci sono tasse o permessi ambientali. In alcuni casi addirittura barriere fisiche o limiti di accesso. Non risulta che il turismo sia crollato.


Chi l’ha detto che il turista deve essere gratis?

In Italia, appena si propone un minimo di regolazione, si scatena un mix tossico di fatalismo e populismo bipartisan. I sindaci si lamentano degli autobus che scaricano comitive low-cost nei centri storici, dei turisti in infradito al Colosseo, dei “mordi e fuggi” che lasciano solo spazzatura. Ma quando si parla di mettere una tassa vera, subito arriva il riflesso pavloviano: “eh ma poi non viene più nessuno...”.

È come se avessimo paura di disturbare l’incantesimo. Ma questo pensiero magico ha un costo: città svuotate, centri storici inabitabili, patrimonio in abbandono.
Il vero tabù non è il turista: è il fatto che il turismo continui a essere trattato come un miracolo spontaneo, e non come un asset strategico.


Conclusione: il coraggio di trattare la bellezza come una risorsa strategica

La bellezza ha un costo. E il mondo è disposto a pagarlo. Il punto non è se la tassa sia popolare — non lo sarà mai — ma se è giusta. La Nuova Zelanda lo ha capito, pur avendo un decimo del nostro patrimonio culturale.
Noi invece abbiamo tutto: storia, arte, paesaggi, cibo, clima. E continuiamo a regalarlo.

Non servono cancelli o barriere. Basta un sistema digitale, come fanno già in tanti: una tassa nazionale all’ingresso, versata all’erario, redistribuita su base trasparente. Un piccolo gesto per chi arriva, un enorme passo per chi resta.

Forse è arrivato il momento di aprire gli occhi. E usare questo bancomat, prima che si svuoti davvero.

E mentre la Nuova Zelanda incassa, noi ci perdiamo in chiacchiere

C'è poi un’ultima domanda che vale la pena porsi:
com’è possibile che un governo che si definisce “sovranista” sia così disinteressato al controllo — e alla valorizzazione — dell’unica vera sovranità che l’Italia possiede?

Un Paese serio, se davvero volesse rafforzare la propria economia senza alzare le tasse ai cittadini, prenderebbe subito in considerazione un’ipotesi come questa: un contributo nazionale sui turisti internazionali. Facile da applicare, difficile da eludere, garantito nei flussi, con ricadute immediate su gettito, cultura, occupazione e manutenzione urbana.

E invece? Il governo Meloni:

  • non fa crescere il PIL, se non con misure estemporanee e assistenzialismo fiscale;

  • continua a spendere in armamenti ben oltre le possibilità di bilancio, con fondi presi in prestito;

  • non ha varato una sola politica industriale, digitale o strategica degna di questo nome;

  • e nemmeno considera seriamente un provvedimento come questo, che qualunque economista post laurea ma anche un politico con un minimo di buonsenso a destra come a sinistra considererebbe ovvio.

Perché? Per paura. Per debolezza culturale. Perché la politica italiana è diventata tutto fuorché crescita: è spettacolo, chiacchiera, gestione del presente minuto per minuto.

E così, mentre i Comuni piangono, i centri storici si svuotano e i monumenti cadono a pezzi, continuiamo a regalare il nostro “petrolio culturale” al mondo. Gratis. Con un sorriso.



📌 FAQ Polemiche – Le (false) obiezioni più ricorrenti

❓“È incostituzionale tassare i turisti?”

No. La Costituzione italiana consente la creazione di imposte purché siano legittime, proporzionate e giustificate da finalità pubbliche. Una tassa d’ingresso turistico è perfettamente compatibile, se:

  • non è discriminatoria,

  • è introdotta con legge nazionale,

  • ha una destinazione trasparente (patrimonio, infrastrutture, cultura).

Tasse simili già esistono (tassa di soggiorno, imposte aeroportuali) e non sono mai state impugnate come incostituzionali.


❓“L’Europa non lo permetterebbe”

Falso. L’UE garantisce la libertà di circolazione, non il diritto a viaggiare gratuitamente.
La tassa è legittima se:

  • si applica in modo uguale a tutti i turisti, UE e non,

  • non ostacola in modo sproporzionato l’ingresso,

  • ha finalità pubbliche e non è una barriera commerciale mascherata.

Esempi simili (eco-tasse, permessi, diritti aeroportuali) sono diffusi in tutta Europa.
Dal 2025, l’UE stessa introdurrà ETIAS, un'autorizzazione elettronica con pagamento obbligatorio (7 €) per tutti i viaggiatori extra-UE.


❓“Il turista poi non viene più”

Non è vero.
I dati dimostrano che una tassa da 30, 60 o anche 100 € non influisce sulle scelte di viaggio di chi ha già investito migliaia di euro tra voli, alloggi e spese in loco.
→ Un giapponese spende oltre 3.000 € per venire in Italia.
→ Un americano, anche di più.
→ Un tedesco o francese resta in media 4–7 notti e spende centinaia di euro.

Una tassa ben comunicata, trasparente e ben finalizzata non è un deterrente. È percepita come parte dell’esperienza, soprattutto se aiuta a conservare il luogo che si visita.


❓“È ingiusto farla pagare a tutti”

No, è giusto se la pagano solo i turisti.
L’idea è esentare:

  • i residenti italiani,

  • i cittadini che rientrano,

  • i lavoratori frontalieri,

  • chi viaggia per studio, salute o lavoro documentato.

Chi viaggia per piacere, paga un contributo minimo per accedere al sistema di bellezza e patrimonio di cui beneficia.
Come succede già nei musei, nei parchi naturali o nelle città d’arte. Solo, questa volta lo paghi all’ingresso nazionale, non a pezzi.


❓“È impossibile da gestire”

Tutt’altro. Basta un sistema digitale integrato con:

  • richiesta online (stile ETIAS o eVisa),

  • QR code da mostrare in aeroporto o ai varchi,

  • pagamento integrato al biglietto o al visto per extra-UE.

Già oggi paghiamo tasse di imbarco, tasse aeroportuali, contributi di sicurezza. Aggiungere un contributo nazionale per la cultura italiana non è un problema tecnico. È una scelta politica.

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