Larry Carlton: l’ultimo session player





Ho incontrato Larry Carlton qualche anno fa. Per me, è sempre stato una leggenda: la prima volta che ascoltai la sua chitarra fu negli anni ’80, in album come Sleepwalk, e da allora il suo suono mi è rimasto addosso. Quel tono cristallino e melodico, ma al tempo stesso profondamente radicato nel blues, con un fraseggio preciso, mai ridondante, mai sopra le righe, mi colpì immediatamente. C’era qualcosa di essenziale e raffinato nel modo in cui “diceva le cose” con poche note.

Quando finalmente ebbi modo di parlargli, l’impressione fu quella di un musicista di enorme esperienza, ma con un’umiltà rara. Carlton è uno di quegli artisti che lavorano sempre per la musica e per il risultato finale, non per alimentare il proprio ego. È una di quelle presenze silenziose ma fondamentali nella storia della musica moderna: uno che preferisce costruire, piuttosto che mostrarsi.

In queste righe troverete un ritratto della sua biografia artistica, delle sue collaborazioni storiche, del suo stile chitarristico unico, e uno sguardo ravvicinato alla sua strumentazione, tra Gibson ES-335 e valvole calde. Una piccola retrospettiva su quello che, a tutti gli effetti, possiamo definire l’ultimo session player.

Le radici del suono: biografia e primi passi

Dalla chiesa al palco: gli anni della formazione

Nato il 2 marzo 1948 a Torrance, in California, Larry Eugene Carlton cresce in un ambiente in cui la musica è più spirituale che spettacolare. I suoi primi passi sulle corde li muove ascoltando il gospel nelle chiese battiste e il country alla radio. A sei anni riceve la sua prima chitarra, e da lì inizia un percorso che non si fermerà più.

Durante l’adolescenza, Carlton si appassiona al jazz, in particolare a Wes Montgomery, maestro del fraseggio elegante e degli accordi armonicamente ricchi. Ma non disdegna nemmeno i classici del rock ‘n’ roll e il blues. Cresce ascoltando B.B. King, Joe Pass, Barney Kessel. Ogni nota è un mattoncino nella costruzione di uno stile che diventerà inconfondibile.

Dopo aver studiato musica al Long Beach State College, Carlton si tuffa nel mondo delle session a Los Angeles, dove negli anni '60 e '70 il lavoro per i musicisti di studio è tanto, ben pagato e, soprattutto, altamente competitivo. Ma il giovane Larry ha qualcosa in più: un tono morbido, una precisione cristallina e una capacità unica di adattarsi a qualunque contesto.

L’incontro con il jazz e il blues: influenze giovanili

Sebbene venga spesso catalogato come chitarrista jazz-fusion, Carlton ha sempre rifiutato le etichette. In un'intervista a Guitar Player Magazine, dichiara:
“Non ho mai cercato di essere un chitarrista jazz, blues o rock. Ho sempre cercato di essere un musicista che dice qualcosa ogni volta che tocca le corde.”

Questa filosofia lo guida sin dagli esordi. Il suo stile incorpora l’armonia sofisticata del jazz, il feeling viscerale del blues e la fluidità del pop californiano. Il risultato è una voce musicale personale, immediatamente riconoscibile anche quando appare solo per 16 misure in un brano di qualcun altro.


Il golden boy delle session: le collaborazioni leggendarie

Con i grandi del pop-rock: Steely Dan, Joni Mitchell, Michael Jackson

Negli anni '70 e '80, Larry Carlton diventa il chitarrista più richiesto degli Stati Uniti. La sua firma è dietro alcune delle chitarre più memorabili del periodo, pur senza quasi mai apparire nei crediti principali. La sua collaborazione più celebre? Probabilmente con gli Steely Dan, i perfezionisti dello studio. In particolare, la sua assolo su "Kid Charlemagne" (1976) è considerato uno dei migliori assoli di chitarra della storia del rock secondo Rolling Stone.

Joni Mitchell lo vuole per il suo periodo jazz-oriented (vedi "Hejira") e ne apprezza il tocco controllato e l’eleganza armonica. Carlton lavora anche con Michael Jackson, Barbra Streisand, Quincy Jones, Linda Ronstadt, Billy Joel, Christopher Cross e Earth, Wind & Fire.

Ogni artista lo chiama per una ragione precisa: è il camaleonte perfetto. Riesce a dare personalità a una parte di chitarra senza rubare mai la scena, costruendo un ponte tra songwriting e arrangiamento con una grazia che pochi possono vantare.

Il chitarrista invisibile dei successi anni ’70 e ’80

Carlton non ama stare sotto i riflettori, e questo gli permette di costruire una reputazione impeccabile tra i produttori e gli altri musicisti. Non ha bisogno di gesti plateali: gli bastano due battute per dire tutto. In un ambiente come quello delle session di Los Angeles, dove il tempo è denaro e la precisione è legge, Carlton diventa sinonimo di affidabilità, gusto e creatività al servizio del brano.

In un’intervista del 1984, racconta:
“Una volta ho suonato una parte per una canzone pop. Tre note, tutte suonate con un pizzico di slide e un vibrato lento. Il produttore si è girato e ha detto: ‘Questo è il suono che cercavamo’. È lì che ho capito che il minimalismo può essere più potente della velocità.”

La sua impronta nei dischi iconici: analisi di alcune performance

Oltre a "Kid Charlemagne", vale la pena citare anche la sua chitarra in "Peg" (Steely Dan), le atmosfere sognanti in "Minute by Minute" dei Doobie Brothers, o ancora i raffinati accompagnamenti in "Court and Spark" di Joni Mitchell. Non sono assoli da stadio, ma pennellate di classe che alzano l’intero livello della produzione

Un artista a tutto tondo: la carriera solista

"Room 335" e l’inizio di una nuova identità

Nel 1978, Carlton decide di uscire dall’anonimato delle sale di registrazione e pubblica l’album "Larry Carlton", che contiene il brano iconico "Room 335". Il titolo è un omaggio alla sua amata chitarra Gibson ES-335, ma anche al numero della sua stanza di registrazione. Questo brano strumentale diventa una sorta di manifesto: melodia sopra tecnica, emozione sopra virtuosismo.

Il pubblico apprezza, e Carlton scopre di poter essere anche un frontman elegante, senza rinunciare alla sobrietà. Il suo stile rimane coerente: poche note, ma scelte con attenzione maniacale.

I progetti fusion: Larry Carlton & The Crusaders

Carlton si unisce anche ai Crusaders, band di culto della scena jazz-funk-fusion americana. Con loro esplora territori più groove-oriented, mescolando jazz, soul, R&B. Partecipando agli album "Chain Reaction", "Those Southern Knights" e "Free as the Wind", Carlton dimostra una versatilità che non ha rivali: può passare da un riff funk sincopato a un assolo jazz modale con naturalezza impressionante.

Dalle colonne sonore alle jam strumentali: l’eclettismo stilistico

Negli anni successivi, Carlton esplora anche il mondo delle colonne sonore, delle collaborazioni con artisti internazionali e dei live. Lavora con Robben Ford, B.B. King, Steve Lukather. I suoi album solisti – da "Discovery" a "Last Nite" – mostrano un artista che ama mettersi alla prova, ma sempre con misura. Mai eccessivo, mai prevedibile.

Il suono Carlton: stile chitarristico e approccio musicale

Fraseggio, melodia, groove: cosa rende unico Larry Carlton

Parlare del fraseggio di Larry Carlton significa entrare nella zona sottile che separa il virtuosismo ostentato dalla musicalità pura. In ogni solo, Carlton tende a privilegiare la linea melodica, l’“aria” fra le note, piuttosto che la cascata incessante di note. Il suo mantra, più volte ribadito nelle interviste, è che “se non stai dicendo qualcosa con le note, stai solo suonando”. In altre parole, il silenzio, la pausa, l’attesa diventano parte integrante del discorso musicale.

Carlton è abilissimo nel far “respirare” il fraseggio: inserisce note mute, ghost, legati delicati, slide contenuti, micro bend. Non cerca il massimale di velocità, ma la giusta tensione: quando “calibra” una frase, spesso lo fa avendo ben presente il brano, il groove e lo spazio degli altri strumenti.

Nei pezzi soft-fusion che ha inciso – per esempio in “Sleepwalk” o “Minute by Minute” – la sua chitarra è spesso il collante che unisce armonia e ritmo. In un contesto funk o R&B, Carlton spesso “respira” tra le note di basso e batteria, creando piccoli spazi armonici, fills melodici, piccole ascese emotive che arrivano al punto giusto.

Un aspetto importante è il groove ritmico-legato: Carlton non suona “sul 1” in modo meccanico, ma spesso posiziona le sue note con un leggero effetto di “push / pull” rispetto al grid metronomico, un’elasticità che rende il suo suono vivo, organico. Questo approccio è evidente nei suoi lavori con i Crusaders, dove la fusione jazz-funk richiede quel senso del tempo “sospeso ma preciso”.

Il blues raffinato dell’uomo che suonava il jazz

Non va dimenticato quanto il blues sia nel DNA di Larry Carlton. Anche quando suona in contesti sofisticati, trapela sempre un tocco blues: il vibrato caldo, la scelta delle note pentatoniche giuste, l’uso del bend “accennato”. In molti suoi assoli, in fondo, c’è sempre una bendata bluesy, un “grattare” gentile che dà corpo alla melodia.

Nel blues, Carlton non è un “chitarrista aggressivo”: ama muoversi nei registri medi, modulare la dinamica, rendere “umano” il fraseggio. Ed è questa miscela – jazz + blues + sensibilità melodica – che lo rende così riconoscibile. Anche nelle sue parti di accompagnamento (comping), non usa chord troppo “densi”: preferisce triadi arricchite, note guida, voicings con spazio, per lasciar respirare l’arrangiamento.

L’improvvisazione controllata: rigore ed emozione

L’improvvisazione di Carlton è spesso definita “controllata”, e con ragione. Non è il tipo da “sparare note a caso”: ogni frase è costruita con coscienza armonica, tiene conto del contesto, risponde agli altri strumenti. È come se suonasse sempre con una bussola interna: sa quando accelerare, quando rallentare, quando tornare indietro.

In un’intervista per Premier Guitar, racconta che in studio raramente “butta” assoli improvvisati da zero — ma spesso prepara delle “idee motore”, delle cellule melodiche, e poi le varia. (Premier Guitar) Questo approccio – equilibrio tra libertà e disciplina – lo tiene sempre “in funzione”, mai fuori tema.

Spesso, nelle sue jam o live, Carlton preferisce ripetere una frase cambiandola leggermente, introdurre variazioni, modulazioni, giocare con dinamica e accenti, piuttosto che “forzare” un’escalation continua. È un’arte – e lui è maestro nel farla apparire naturale.

Dentro il suo arsenale: strumentazione e setup

Gibson ES‑335: la leggenda che dà il nome

Se Larry Carlton è spesso chiamato “Mr. 335”, non è un caso. La sua chitarra più celebre (e più amata) è la Gibson ES‑335 del 1969, che lui acquistò nuova quell’anno.  È diventata il suo cavallo di battaglia, testimone di decine di migliaia di ore in studio e sul palco. Nel corso degli anni ha subito modifiche: cambi di pickup, ponte in titanio, nut in grafite, refretting periodici. 

Ha anche un’altra ES‑335 (del 1968) con pickup PAF ’61 modificati.  Altre chitarre della sua scuderia includono una Gibson Les Paul Special del 1955, una Fender Telecaster 1954, una Fender Stratocaster del 1962 (entrambi strumenti stock) e alcune chitarre Valley Arts più moderne. 

Quando deve evocare un suono più “Fenderesco”, utilizza la Tele o la Strat, ma è la 335 che rimane il centro delle sue scelte. In un’intervista, spiega che la scelta di una semi-hollow era strategica: serviva uno strumento versatile (rock, jazz, country) che non risuonasse troppo o troppo poco — la 335 era “una buona giacca per ogni occasione”. 

Ampli, pedali e tone: come nasce il suo suono

Dal punto di vista dell’amplificazione, Carlton ha attraversato diverse fasi. In passato ha usato un Fender Deluxe “tweed” (negli anni ’70) collegando direttamente la sua 335 per session essenziali.  Ma la configurazione moderna ruota attorno agli amplificatori Bludotone, costruiti su misura da Brandon Montgomery, uno dei suoi tecnici. In concerto usa un Bludo‑Drive 100/50, in studio un Bludo‑Drive 50/25. Le casse utilizzate sono 1x12 chiuse con speaker Electro‑Voice EVM12L, con due “baffle cilindrici” per la sintonizzazione armonica. 

La catena effetti è transitata da rack digitali a un setup più modulare di pedali. Carlton ha due pedaliere principali costruite dal suo tech Rick Wheeler.  La pedaliera “fly-date” (da palco) include:

  • Tuner Korg Pitchblack

  • Pedale volume Sho-Bud modificato

  • Wah Dunlop 95Q Cry Baby

  • Overdrive Tanabe Zenkudo

  • Chorus Visual Sound Liquid Chorus

  • Riverbero TC Electronic Hall of Fame

  • Delay Providence Chrono Delay

Completa il setup un sistema rack con Roland SDE‑1000 (delay digitale), un TC Electronic 1210, e un Lexicon MX400 (riverbero). Il segnale dry (puro ampli) e wet (effetti) viene inviato separatamente al FOH, in modo da bilanciare mix in tempo reale. 

In un video, Carlton spiega che ama l’effetto "Liquid Chorus" per aprire il concerto: «lo uso per creare una atmosfera solista pulita all’inizio dello show». Inoltre, tiene alta la pulizia del tono finché serve, e usa l’overdrive solo come leggera spinta, non per saturazioni aggressive.

Tecnica, tocco, attitudine: la mano è tutto

Il suono di Larry Carlton nasce anche dal tocco delicato ma preciso. È famoso per il controllo dinamico: usa il volume della chitarra, il tocco delle dita, spesso il pollice sul pick, e minimizza l’uso del plettro nervoso. In combinazione con amplificatori touch-sensitive (come i Bludotone, una sorta di “clone Dumble-style”), ottiene una risposta immediata: suonando piano la chitarra resta pulita, premendo con decisione entra in saturazione morbida. 

Nelle sue interviste, afferma che la tecnica conta ben meno del feeling e dell’ascolto: “Se non sai ascoltare cosa suonano gli altri, non puoi inserirti bene in una sessione” (dichiarazione ricorrente nelle sue conversazioni) 

Infine, la manutenzione del setup è maniacale: regolarità nei refretting, calibratura frequente dei pickup, controllo serraggio, scelta del cablaggio interno e attenzioni al grounding — non lascia nulla al caso, perché ogni piccolo dettaglio può alterare il tono.

La voce del maestro: dichiarazioni, pensieri, visione

Interviste rivelatrici: filosofia di un session player

Nel corso degli anni, Larry Carlton ha rilasciato molte interviste in cui emerge con chiarezza la sua visione del ruolo del musicista. In Premier Guitar dichiara: “Non sono un virtuoso che cerca di dimostrare qualcosa continuamente. Sono un musicista, e cerco di servire la canzone.”  In un’altra occasione ha raccontato come molte delle sue parti nelle session siano nate da poche note: “Se inserisci troppe idee, puoi rovinare il brano; meglio una nota ben piazzata che cento inutili”.

Un episodio particolarmente emblematico risale a quando, in un progetto pop, il produttore gli chiese di “mettere un assolo” e lui rispose: “Ok, ma fammi vedere la canzone, perché il mio assolo deve parlare con il resto”. Questo approccio umile, ma determinato, è ciò che lo ha reso insostituibile nei corridoi degli studi di Los Angeles.

Quando ha dovuto recuperare dall’evento traumatico del 1989 (fu ferito da un colpo di pistola alla gola mentre lavorava nello studio Room 335), dichiarò:

“Se ho la fortuna, il mio sogno è continuare a fare la mia musica e basta.” 

La sua ribalta come solista, quindi, non ha mai soppiantato la sua identità da “servitore del suono”. In un’intervista più recente del 2021, ha riconosciuto: “La mia più grande soddisfazione è che chi ascolta non dice ‘Oh, ha fatto un buon assolo’, ma ‘Quello era il suono giusto per quel brano’.” 

L’eredità secondo Larry: il ruolo del chitarrista oggi

Carlton è spesso richiesto come mentor, insegnante, speaker in workshop. Nelle sue dichiarazioni tende a ricordare ai giovani chitarristi che il “suonare bene” non coincide con “suonare tanto”. In un’intervista recente, ha detto: “La generazione odierna ha troppi stimoli: effetti, pedali, gear. Però spesso dimentica l’importanza dell’ascolto e della frase. Se scrivi una frase potente con tre note, sei già avanti.”

Inoltre, ribadisce che il ruolo del session player oggi è cambiato: con le tecnologie digitali e i plugin, chiunque può “suonare” in studio, ma l’esperienza, l’orecchio, la sensibilità rimangono insostituibili. E chi ha fatto migliaia di sessioni sa come posizionarsi dentro uno spazio sonoro, come colorare con gusto, come “non rompere” un arrangiamento — qualità che non si insegna da manuale.

Infine, parla spesso del legame tra emozione e tecnica: non basta padroneggiare scale, bisogna che la musica abbia un respiro umano. Dice: “Se non provi qualcosa quando suoni, perché dovrebbe provarlo chi ascolta?”


L’eredità di un gigante silenzioso

L’influenza su generazioni di chitarristi

Anche se non è un nome da copertina popolare come Clapton o Page, l’influenza di Larry Carlton è profonda e trasversale. Chitarristi di jazz, fusion, pop e anche rock lo citano spesso come fonte di ispirazione — non per la velocità, ma per la ricchezza del fraseggio, il suono e la misura. In molti seminari di chitarra moderna, si studiano le trascrizioni dei suoi assoli come esempi di “less is more”.

La sua combinazione di armonia sofisticata e sensibilità melodica ha influito su chitarristi come Mike Stern, Robben Ford, John Scofield, e persino musicisti più “pop” che cercano di integrare eleganza nel loro approccio.

Da ultimo, il fatto che abbia mantenuto per decenni un’identità coerente — né completamente da studio, né rockstar — lo rende modello per chi non vuole “vendersi” agli estremi del mercato.

Da sideman a leggenda: il riconoscimento tardivo

Per molto tempo, Larry Carlton è rimasto dietro le quinte — un “chitarrista invisibile” che però firmava centinaia di dischi all’anno. Solo più avanti è stato riconosciuto come artista principale: ha vinto Grammy (come con “Theme from Hill Street Blues” nel 1981), e nel 2001 il live No Substitutions: Live in Osaka (con Steve Lukather) ricevette un Grammy per miglior album strumentale pop. 

Ha inoltre continuato a pubblicare album solisti che hanno ricevuto attenzione critica: Fingerprints, Sapphire Blue, The Jazz King, ecc. Il progetto No Substitutions lo ha fissato anche all’estero come uno dei giganti ancora attivi nel panorama strumentale.

Non pochi fan – soprattutto chitarristi esigenti – lo considerano l’ultimo vero grande session player: uno che ha attraversato decenni di cambiamenti tecnici e stilistici senza perdere identità, credibilità o musicalità.


Conclusione: il suono di una generazione

Larry Carlton non è semplicemente un chitarrista: è un ponte tra generazioni, uno specchio del mestiere del musicista che deve sapersi adattare senza tradire la propria voce. È la prova vivente che fare il “musicista di studio” non è peggiore che essere rockstar: è scegliere di mettere il suono, la canzone e l’orecchio al centro.

La sua carriera è un manuale disegnato in note: semplicità, misura, ascolto, disciplina, tocco. Di fronte al suo catalogo, un giovane musicista oggi può imparare più da un solo assolo di Carlton che da cento scale eseguite con il metronomo. E lo fa, spesso, senza saperlo.

L’“ultimo session player” non è un epitaffio, ma un riconoscimento in corso: Larry Carlton è ancora lì, a suonare, a insegnare, a dare senso al silenzio fra le note. E per questo merita di essere celebrato, studiato e ascoltato, oggi e domani.


Discografia Essenziale

💿 Carriera solista

Larry Carlton (1978)
Il disco che ha cementato il soprannome "Mr. 335". Un concentrato di jazz fusion, soul e tecnica chirurgica con melodie che non si limitano a stupire: ti inchiodano. Il suono è caldo, vellutato, ma con denti affilatissimi. L’essenza del Carlton solista.

Sleepwalk (1982)
Più morbido e sognante, questo album è un viaggio notturno tra ballad sofisticate e linee di chitarra così lisce che sembrano scivolare direttamente nel subconscio. Una dimostrazione di stile, senza strafare.

On Solid Ground (1989)
Qui Carlton mescola groove, feeling e maestria in modo maturo e sicuro. Un lavoro con meno fronzoli e più sostanza, perfetto per capire la sua evoluzione chitarristica post-anni ‘80.

Fire Wire (2006)
Un Carlton più ruvido, diretto, quasi aggressivo (per i suoi standard). Qui abbandona il velluto per tirare fuori un sound più crudo e grintoso, senza perdere l'eleganza che lo distingue.

The Paris Concert (2009)
Live album che mostra Carlton nel suo elemento naturale: il palco. Dinamica, interplay e assoli da manuale. Se vuoi sentirlo respirare, questo è il disco.


Collaborazioni

Steely Dan – The Royal Scam (1976)
Carlton qui non è un comprimario: è l’arma segreta. L’assolo in Kid Charlemagne è semplicemente uno dei migliori della storia del rock. Punto. Non discutere.

Joni Mitchell – Court and Spark (1974)
Jazz, folk e poesia si fondono e Carlton è l’architetto sonoro silenzioso dietro molti brani. Raffinato, intelligente, mai invadente: un maestro dell'equilibrio.

The Crusaders – Those Southern Knights (1976)
Con The Crusaders, Carlton naviga tra soul jazz e funk con disinvoltura. Il groove è potente, la chitarra è sempre in mezzo al cuore del ritmo. Un Carlton più sporco e terribilmente efficace.

Michael Jackson – Off the Wall (1979)
Sì, c'è anche lui dietro al sound levigato e funkeggiato dell’album. La chitarra è solo un pezzo del puzzle, ma un pezzo che brilla anche senza mettersi in mostra. Classe pura.

Fourplay – Fourplay (1991)
Quando si unisce a questo supergruppo smooth jazz, Carlton dimostra che si può essere sofisticati senza essere noiosi. Jazz patinato? Sì. Ma con gusto, grazie alla sua impronta.


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