Questo film non parla d’arte: parla di te. Le rivelazioni di The Square


The Square movie



Questo film non parla d’arte — parla di te: 5 rivelazioni da The Square

Ci siamo passati tutti. Fermi nello spazio asettico di una galleria d’arte contemporanea, a fissare un’installazione — mucchi di ghiaia, un insieme di oggetti trovati disposti con maniacale precisione, un singolo tubo al neon — mentre dentro di noi si insinua un lento senso di incertezza. È una riflessione profonda sulla condizione umana o uno scherzo ben architettato alle nostre spalle? Ci guardiamo intorno in cerca di un indizio sui volti degli altri visitatori, sperando di non essere “quello che non capisce”.

Il film di Ruben Östlund, vincitore della Palma d’Oro nel 2017, The Square, non solo comprende perfettamente questa ansia culturale, ma la trasforma in un’arma. Con la freddezza chirurgica di un provocatore svedese, Östlund ci mette di fronte allo specchio delle nostre pretese intellettuali, delle nostre ipocrisie sociali e del divario tra i valori che proclamiamo e le azioni che realmente compiamo. Il film utilizza il mondo dell’arte come palcoscenico, ma il suo vero soggetto è lo spettatore — sia quello dentro la storia che quello seduto in sala.

Non è un film che si guarda soltanto: è un esperimento sociale travestito da cinema, progettato per farci sentire a disagio e costringerci a confrontarci con le eleganti menzogne che raccontiamo a noi stessi. Ecco cinque tra le rivelazioni più potenti del bisturi di Östlund sulla società contemporanea.


1. Il vero compito dell’arte contemporanea è chiederti se stai fingendo

Lo scopo dell’arte è cambiato nel corso dei secoli. Per lunghissimo tempo era chiaro e indiscutibile: l’arte sacra serviva la religione e il mito, offriva narrazioni e dogmi che dicevano alle persone cosa pensare. Poi arrivò l’era moderna, quando l’artista — ormai portavoce di sé stesso e non di una divinità — spostò il focus sul perché pensare. L’arte divenne una lente personale, soggettiva, interpretativa.

The Square sostiene che oggi siamo entrati in una terza, più inquietante fase. L’arte contemporanea non serve più a fornire risposte, né a guidare le domande. Il suo compito è porne una sola, destabilizzante: stai davvero pensando e sentendo, o stai solo fingendo di essere colto?
È una critica potente e scomoda a un mondo in cui “consumare arte” è spesso una performance di intelligenza più che un atto autentico. Il film smaschera la nostra paura di apparire sciocchi, suggerendo che questa paura — più di qualunque principio estetico — determina ormai il nostro rapporto con l’arte.

L’arte sacra ti diceva COSA pensare.
L’arte moderna ti diceva PERCHÉ pensare.
L’arte contemporanea ti chiede SE STAI PENSANDO O FINGI.


2. Non stai guardando l’arte. È l’arte che sta guardando te.

Una delle intuizioni più sorprendenti di The Square è che il vero soggetto non è l’opera, ma lo spettatore. Il film è costruito come una “trappola per menti pensanti”: un’installazione concettuale in cui le nostre reazioni, il nostro disagio, le nostre risate e la nostra ostentazione intellettuale diventano la vera rappresentazione scenica. Östlund non vuole offrirci un’interpretazione ordinata da portare a casa; è molto più interessato a osservarci mentre la cerchiamo.

Ogni scena imbarazzante, ogni dilemma morale, ogni opera incomprensibile è progettata per metterci sotto il microscopio. Mentre cerchiamo di decifrare il significato di un’installazione o giudichiamo le scelte discutibili del protagonista, è il film a studiare noi. Le nostre smorfie, i nostri silenzi, il bisogno di apparire intelligenti: tutto fa parte della performance. Entriamo in sala convinti di essere i critici, ma scopriamo di essere i criticati.

Östlund non ti offre un’interpretazione.
Ti osserva mentre cerchi di trovarla.
E nel farlo, tu sei la vera installazione.


3. Se l’arte non è pericolosa, è solo arredamento

Nella scena più celebre (e terrificante) del film, un performer che imita un gorilla semina il panico durante una cena di gala tra ricchi mecenati. Quello che inizia come una provocazione artistica degenera presto in minaccia reale, cancellando il confine tra performance e realtà. Il pubblico, inizialmente divertito e compiaciuto della propria apertura mentale, si paralizza. Non sa se intervenire o fingere che faccia tutto parte dello spettacolo.

È il cuore pulsante di The Square: una perfetta allegoria del nostro rapporto superficiale con l’arte “d’avanguardia”. Amiamo definirci colti e progressisti — finché qualcuno non ci mette davvero in crisi. Vogliamo che l’arte sia trasgressiva, ma solo se resta chiusa dietro un vetro invisibile. Quando invece rompe quel vetro e ci minaccia, il velo di civiltà cade.

Tutti vogliono essere civili, inclusivi, aperti,
finché l’arte non diventa davvero pericolosa.
Allora scappano. O peggio: restano immobili.


4. Uno specchio per la nostra ipocrisia educata

Sebbene ambientato nel mondo elitario dell’arte contemporanea, The Square è soprattutto una satira su una malattia sociale molto più ampia. Il bersaglio è il “liberalismo da salotto”, quella cultura benpensante che predica inclusività e compassione da una distanza di sicurezza, ma si ritrae di fronte alla realtà concreta del disagio.

Emblematica è l’installazione che dà il titolo al film: un semplice quadrato tracciato sul pavimento, accompagnato da una targa che recita:
“Il Quadrato è un santuario di fiducia e di attenzione. All’interno di esso tutti abbiamo uguali diritti e doveri.”

Un principio nobile, che però si svuota quando un senzatetto chiede aiuto all’interno del quadrato e tutti fingono di non vederlo. L’arte diventa specchio della nostra codardia in abito da sera.
Questa contraddizione è incarnata dal protagonista, Christian, un curatore di museo sofisticato e brillante solo in apparenza, ma moralmente vacuo. Tra una campagna pubblicitaria disastrosa che trasforma la miseria umana in clickbait e goffi tentativi di redenzione, la sua vita è la rappresentazione perfetta del progressismo di facciata. Basta un soffio di scandalo perché cada a pezzi, come una scultura fatta di sabbia.


5. Non basta capirlo: The Square va vissuto

Alla fine, The Square non è un enigma da risolvere. Il suo scopo non è farti uscire dalla sala convinto di aver “capito tutto”, ma spingerti a chiederti: “Che cosa sto facendo di fronte a questo?”
Il film sostiene che la vera arte non si contempla soltanto — si attraversa, si vive.

All’inizio, Christian osserva e analizza l’arte da una distanza protetta. Ma quando la vita reale irrompe — il furto del cellulare, l’accusa ingiusta a un bambino, la perdita di credibilità — quella distanza crolla. Non può più curare l’arte: deve incarnarla.
La sua trasformazione non è edificante né catartica. Nell’epilogo, tenta di ritrovare il ragazzo che ha danneggiato, ma non lo trova. È troppo tardi. Nessuna musica commovente, nessuna morale rassicurante. Solo la conseguenza disordinata e umanissima di una vita che ha finalmente incontrato le proprie contraddizioni.

The Square ti chiede di vivere l’arte,
non solo di rappresentarla.
È in quella trasformazione che l’arte trova il suo senso.


Conclusione: Cosa vedi nello specchio?

The Square è più di un film: è uno specchio lucidissimo, puntato non solo sul mondo dell’arte ma su chiunque consumi cultura. È un’opera brillante, scomoda e necessaria, che interroga i nostri valori, le nostre paure e le ipocrisie gentili su cui si regge la società moderna.

La domanda che ci lascia non è se l’arte sia buona.
È se lo siamo noi.


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