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giovedì 18 marzo 2021

Siamo noi i replicanti


Che cos'è il mito della caverna di Platone se non una visione futuristica del cinema per noi contemporanei? E chi sono quegli uomini in catene che guardano immagini (ombre) riflesse dal "fuoco"  su una parete?  Avevo 17 anni quando ho visto il primo Blade Runner in un cinema di Milano in prima visione nell'ormai lontano 1982. 

La sala era gremita e molti lo guardarono in piedi. C'era molta attesa per questo film dopo Alien del 1979 in cui Ridley Scott si presentava come il nuovo regista visionario della SF. In quell'anno uscì un altro film "La cosa" di John Carpenter rifacimento di "La cosa da un altro mondo" del 1951 il cui tema era in qualche modo simile a quello di Alien. L'eterna storia del licantropo "azzannato" (da un cane o da un alieno) che si trasforma in qualcosaltro in un mostro, un diverso, un alieno appunto.

 Nel 1982 l'aids era già una realtà anche se in italia ancora poco conosciuta (30 milioni di morti e nessun vaccino a oggi) e quel clima di claustrofobico terrore ben espresso in entrambi i film fu in qualche modo l'annunciato presagio di un mondo a venire nel modo in cui a volte gli uomini riescono a leggere un futuro confuso attraverso impercettibili sogni (o incubi)  Il Blade Runner di Mr. Scott era ambientato in quello che per noi allora era ancora un futuro lontano, il 2019 di una crepuscolare e notturna Los Angeles ed era tratto da una delle opere di un altro scrittore di culto della SF americana Philip K. Dick. Il tema di tutta l'opera dello scrittore californiano è facilmente riassumibile in una sola domanda: che cos'è la realtà? Un problema di sempre della filosofia (a partire da Platone appunto) ma non molto frequentato in letteratura e specialmente dagli scrittori di SF da sempre (ingiustamente) considerata un ramo minore della narrativa.

Inutile dire che quel film è oggi considerato un cult ed è entrato di diritto nella storia del cinema e non solo di fantascienza. All'epoca (nei ruggenti 80 della Milano da bere) era solo un buon film distopico, un vago rumore di fondo in una realtà fatta di slanci verso un radioso futuro tutto da conquistare tra l'ottimismo reganiano e la "crescita felice" di un nuovo benessere che era fatto di debiti e plastica, ma lo avremmo capito più tardi anche se le voci contrastanti alla lettura mainstream non mancarono sin da allora. Ottimismo era la parola d'ordine di quegli anni e Blade Runner che ci mostrava un cupo futuro niente altro che un film. Forse è utile ricordare un'altra opera di grande successo mondiale di quel periodo che aiuta a mettere a fuoco gli anni 80, in questo caso un opera di narrativa da cui anche qui fu in seguito tratto un film di grande popolarità: Il nome della rosa di Umberto Eco. Un libro che ha venduto ad oggi qualcosa come 55 milioni di copie nel mondo, un opera in questo caso che parla del passato e non di un futuro prossimo, un libro ambientato nel medioevo. 

Mi sono spesso chiesto in quegli anni il perchè di un successo così eclatante (al di la degli ovvi meriti di narrazione di un maestro come Eco) in un opera "dark"anche se abilmente cammuffata da "giallo" in piena epoca di ottimismo ed edonismo reganiano. Oggi dopo aver viaggiato nel futuro, nell'unico modo possibile cioè invecchiando, posso tentare una risposta. Eco non parlava del passato ma del futuro prossimo nello stesso modo di Blade Runner. Il nuovo medioevo nel quale oggi siamo completamente immersi senza farci mancare nulla, nemmeno la nuova peste del covid 19.

Nel libro di Eco la cultura è uccisa attraverso l'occultamento del libro di Aristotele sulla satira. Nessuno ride mai a parte Salvatore il monaco storpio e matto. Nessuno ride mai nemmeno nei vangeli o nella bibbia, Gesù non ride e se lo fa nessuno ne ha mai scritto. Eco è ben consapevole di questo e costruisce un opera intorno a un periodo storico fornendoci anche l'arma per uscirne. La satira, la risata, la caricatura, la parodia di cui si è ormai persa traccia nel romanzo e nel cupo tempo presente della pandemia e di questo nuovo medioevo.  Apro parentesi -Uno degli slogan più belli del 68 era: "sarà una risata che vi seppellirà" e il fatto che un geniale comico sia nel frattempo diventato il fondatore del più grande movimento rinnovatore in italia (comunque la ai pensi questo è un fatto) non è ancora stato pienamente compreso mi pare. - chiudo parentesi.

Oggi, nel 2021, il tempo di Blade Runner che era il futuro all'epoca dell'uscità del film, è solo il passato. Il 2019  l'anno di inizio della pandemia in Cina. La "profezia" è compiuta, intelligenza artificiale, Cyborg, supercomputer, metadati,identità digitale, big data, big corporations, virtual reality, rete, connessione digitale, automi, computer quantistici sono ormai tutte realtà in divenire. 

"E' tempo ormai per un nuovo film" deve essersi detto Ridley Scott (questa volta in veste di produttore) e infatti ne fa uscire un'altro nel 2017 per la regia di Dennis Villeneuve: Blade Runner 2049. L'asticella si sposta più in la di una trentina d'anni, grosso modo come nel primo film, ma la metafora rimane la stessa. I replicanti siamo noi che assomigliamo ormai sempre più a macchine senza nulla di umano. Si cercano briciole di umanità nell'unica forma possibile, il ricordo. Qualcosa che aveva ben capito già Proust ai suoi tempi. Il ricordo come conoscenza e riscatto dell'umano. Noi siamo i nostri ricordi e siamo plasmati dai ricordi, altrimenti siamo solo alberi morti o cyborg, che fluttuano nel perenne, continuo e roboante messaggio subliminale, di un eterno presente il cui mantra filosofico è quello di una pubblicità: Life is now

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mercoledì 7 febbraio 2018

Impossible music, synclavier e altre storie

L'ultima collaborazione di Zappa è quella con l'Ensamble moderne celebrata nel live The yellow shark. Il compositore di Baltimora (di origini siciliane) chiude la sua carriera con quello che rimase a suo dire il  pricipale ostacolo artistico durante l'intero arco della sua carriera: la gestione degli ensamble orchestrali.

Zappa ben racconta le sue vicissitudini orchestrali nella sua autobiografia "The real FZ book" relegandole nel settore "orchestral stupidities" per sottolineare con la sua abituale ironia il tempo e i soldi che dice di averci perso.
Ma al di la delle questioni di "costume" resta il fatto sul quale uno dei miti della carriera di Zappa era costruito: l'insuonabilità delle sue partiture o quantomeno di alcune di esse". Zappa fu tra i primi se non il primo ad utilizzare e studiare estensivamente il Synclavier (uno dei primi sitemi digitali per la composizione musicale estremamente costoso all'epoca e che solo in pochissimi potevano permettersi) per le sue composizioni negli anni 80. Quella che Frank chiamava "the machine" fu installata al piano inferiore della sua casa nel mitico "Research Utility Kitchen" in poche parole il suo home studio nel basament della sua villa fuori LA.
Il primo album che Zappa pubblica interamente utilizzando il Synclavier è Francesco Zappa dedicato alla riproposizione delle musiche di un suo omonino (e anonimo) compositore e violoncellista milanese del XVII secolo. E' un album fra i più interessanti di tutta la (ampia) discografia del maestro e per molteplici ragioni. Intanto come si è detto l'uso del Synclavier per la prima volta nella realizzazione di un album intero. Quindi in qualche modo Zappa è anche il primo ad occuparsi di quella che oggi si chiamerebbe computer music o composizione digitale. Inoltre questo è l'unico album interamente dedicato a musiche non scritte da lui medesimo e per un compositore prolifico e immaginifico come Zappa rappresenta certamente un unicum in tutti i sensi.Oggi si direbbe che è il suo unico album di cover e sono cover del 1700.
Zappa non lo dice ma quest'album gli serve (anche) per prendere pienamente possesso delle possibilità che la macchina gli offre e che poi confluiranno in altri mirabolanti album ed esperimenti  successivi. E' solo una mia opinione personale naturalmente, ma difficile da confutare, forse anche perchè il maestro nel frattempo ha lasciato questi ameni lidi terreni per altre e non meglio precisate destinazioni.
Quindi Zappa trova da quel momento (1984) in poi il suo principale alleato nel Synclavier questa sorta di mostro Frankesteiniano sogno e incubo di tutti i moderni compositori. La perfezione dell'esecuzione di ciò che si scrive, e la liberazione da tutti gli inutili e difficili orpelli economici e organizzativi legati alla esibizione con un orchestra vera in carne ed ossa.

Zappa stesso però si renderà conto presto della vanità del suo sogno di Frnakestine, dare vita alla morte, produrre arte solo con gli 0-1 e i bit. e non a caso per l'appunto tornerà ad utilizzare una vera orchestra per il suo testamento artistico The yellow shark.

Oggi 34 anni dopo è probabilmente difficile comprendere per un ragazzo odierno immerso nella cultura digitale quanto il lavoro di pionieri come Zappa sia stato fondamentale nella comprensione e miglioramento di qualità tecnica e strutturale che da allora ad oggi ha investito la tecnologia con progressione geometrica.
Certamente comprese come pochi allora quanto la tecnologia digitale avrebbe cambiato la musica e la sua fruizione da parte di tutti.  Oggi il livello di tecnologia è altissimo e virtualmente indistinguibile dalla "realtà". La maggior parte della musica che ascoltate tutti i giorni attraverso mille media possibili (all'epoca c'erano solo gli album, le cassette e la radio) è prodotta attraverso i computer con l'ausilio di parti umane (voci e altro) e nessuno ormai nota più la differenza.

Ma tornando a Zappa che cosa è successo quindi alla sua musica e alle "partiture impossibili" ora che qualunque computer sarebbe in grado si suonare qualsiasi cosa? Sembrerebbe che oggi non interessino più a nessuno forse perchè i sogni dell'arte e degli artisti sono interessanti solo a patto che restino irrealizzabili. Listen on Apple Music App Icon Apple Music

lunedì 6 marzo 2017

I segreti del suono di Steve Ray Vaughan.


Il suono di un chitarrrista nasce dalla combinazione di molti elementi. Nel caso di SRV non bisogna dimenticare innanzitutto il tocco particolare di cui era dotato, l'uso di corde di grandi dimensioni (mi cantino 0.13) l'uso della pennata in giù per la maggior parte tipico dei chitarristi blues e molto altro ancora.
Inoltre non bisogna dimenticare che oltre la "geografia tecnica" di chitarre, amplificatori, corde, effetti e quant'altro esistono elementi difficilmente quantificabili che fanno parte della personalità del musicista. I grandi musicisti possiedono "il suono" che li identifica immediatamente. Immaginate per esempio di ascoltare bendati la chitarra di Santana, chi non la riconoscerebbe al primo ascolto? Quel suono e timbrica unici sono i suoi e di nessun altro esattamente come la voce di ciascuno di noi è diversa. Per cui non limitatevi semplicemente all'analisi tecnica per quanto importante ma ricordate che lavorare sul suono significa sviluppare tecnica, manualità, e destrezza artistica e tutto questo richiede molti anni di duro lavoro.
Qualcuno poco esperto potrebbe possedere le chitarre e gli amplificatori di SRV ma questo non significa che possa avere comunque il suo suono. Questo è bene dirlo da subito per sgombrare il campo da possibili malintesi.

Fatta questa dovuta premessa cominciamo a vedere quali corde usava il nostro. Molti dei chitarristi rock degli anni 60/70 utilizzavano set di corde relativamente leggeri (pare che Page e Beck usassero le 00.8 e Hendrix le 9 o 10) set di corde più grandi erano di utilizzo esclusivo dei chitarristi jazz che non si ponevano grandi problemi di bending ma volevano un suono pieno e rotondo (un nome su tutti Pat Martino) Quindi Stevie usava 0.13 al cantino ma accordava un semitono sotto in Eb la scalatura utillizzata però era una sua customizzazione (per non avere il sol ricoperto). Utilizzava GHS nickel rockers (a volte pare le Boomers) in questa scalatura:

.013 – .015 – .019p – .028 – .038 – .058

Il suono parte dalle corde, è li che inizia e si sviluppa quindi un set robusto produce sound robusto ma attenzione non pretendete di avere un action bassa con set del genere sarebbe praticamente impossibile e le corde non avrebbero il giusto spazio per vibrare.

Amplificatori

Durante le registrazioni di "In step" l'ultimo album della sua carriera SRV aveva a disposizione in studio ben 32 amplificatori fra cui un Fender Twin 1962, un Fender Bassman originale 1959, un Fender Harvard e un Magnatone insieme al Fender Vibroverbs, Dumble Steel String Singers e molti altri Fender e Marshall. Sperimentava con varie combinazioni in studio fino ad ottenere il suono che più lo soddisfaceva per registrare.

Vediamo più in dettaglio alcuni degli amplificatori più usati da SRV live e in studio:

1980 Marshall model 4140 Club and Country



Stevie usava questo ampli per i suoni puliti contrariamente a quanto di solito fanno i chitarristi (Fender per i puliti, Marshall per i distorti) anche perchè questo è considerato l'equivalente Marshall del Fender Twin Reverb.

1964 Fender Vibroverb


Per buona parte degli anni 80 il cuore del sound di SRV è costituito da un paio di questi amplificatori sul palco per il suo tipico suono overdrive.

Dumble Steel String Singer


SRV usava i Dumble per i suoni clean. Alexander Dumble è un artigiano californiano che produce questi ottimi (e molto costosi) amplificatori la cui caratteristica è l'estrema limpidezza del suono anche appunto utilizzando set molto grandi di corde. 



 Fender Super Reverb metà anni 60


SRV usava questo ampli per i suoni puliti in combinazione con il Vibroverb che usava esclusivamente per pilotare il rotating cabinet con cui produceva quel suo caratteristico sound leslie.

Effetti



Fra gli effetti maggiormente usati ricordiamo l'Ibanez tube screamer TS9 che veniva solitamente usato per produrre un boost pulito attraverso il Fender Vibroverbs per i soli con il livello al massimo e il gain piuttosto basso.

Fender Vibratone


Il famoso effetto "speaker rotante" in brani come "Cold shot" e "Couldn't stand the weather" era generato attraverso questo Fender Vibratone cabinet. Il Vibratone a differenza del Leslie enfatizza meglio i medi della chitarra. La Fender ne ha prodotti per tutto il periodo dal 67 al 72 ed è universalmente considerato uno dei migliori "rotating speaker" per chitarristi. SRV usava anche un Wha della Vox V846 un Dallas arbiter fuzz face e un Tycobrahe octavia per i suoni di tipo hendrixiano.
 


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domenica 26 febbraio 2017

Rock around the clock

Il primo prototipo del primo orologio long now per il computo del tempo nei prossimi 10.000 anni ha iniziato a funzionare il 31 dicembre 1999. Nelle parole di D.Hills che riassumono l'idea egli dice: « Voglio costruire un orologio che fa tic una volta l'anno. Il braccio dei secoli avanza una volta ogni cento anni, il cucù viene fuori ogni mille anni. Voglio che il cucù venga fuori ogni millennio per 10.000 anni. Se mi sbrigo dovrei farcela a finire l'orologio in tempo per far uscire il cucù la prima volta. »

Ma perché l'idea di un così lungo computo del tempo, di un orologio di queste dimensioni e di questa scala? Gli intenti sono ben spiegati dalla fondazione che fa capo al progetto The long now ma sostanzialmente si possono riassumere nella crescente necessità di ristabilire un sano e corretto rapporto con lo scorrere del tempo in dimensioni che tornino a superare la banale barriera dell'immediatezza che il mondo sembra ormai irrimediabilmente aver imboccato nella contemporanea epoca digitale. 
L'umanità si "misura" da sempre col tema della misura del tempo, le piramidi erano sostanzialmente concepite come "capsule del tempo" per il faraone e il sito di Stonehenge non è che un gigantesco orologio solare la cui costruzione è iniziata addirittura nel 3000 AC





Misurare il tempo serviva all'uomo per comprendere i tempi della semina e del raccolto e determinare le stagioni a cui poi venivano fatti seguire all'epoca dei solstizi, grandi celebrazioni e culti più o meno pagani. 


Uno dei calendari più elaborati, di cui si è discusso a lungo in epoca recente, a proposito della prevista (e ovviamente come al solito smentita) fine del mondo, è stato il calendario Maya con il suo lungo computo addirittura arrivato indenne alla nostra epoca attuale; quando quella civiltà aveva ormai cessato di essere da molti secoli. Felicemente aiutata in questo è bene forse ricordarlo dai solerti Cortez e Pizarro che dio li abbia in gloria. 

Quindi il tema del calendario per eccellenza il nostro gregoriano cosiddetto, introdotto da Papa Gregorio XIII nel 1582 e che andava a sostituire il calendario Giuliano che ormai aveva dimostrato di non reggere per l'appunto il "corso del tempo". Furono convocati astronomi e matematici fra i migliori in Europa all'epoca per risolvere il problema, nella sua forma attuale il calendario che ancora adottiamo in praticamente tutto il mondo occidentale si basa sull'anno solare. La terra ruota intorno al sole nella sua danza di milioni e miliardi di anni e gli uomini ultimi arrivati sul pianeta si affannano a prendere le misure in tutti i modi possibili. Ma per correttamente osservare la "danza" della terra intorno al sole occorrevano strumenti di grande precisione, un operazione che riguardava e riguarda la tecnologia, la matematica, la fisica, l'astronomia.

Ma il problema del computo del tempo non si limita certo al calendario o alle stagioni, che cosa ne sarebbe per esempio della musica senza il tempo? Il tempo è musica e la musica in questo senso offre uno dei suoi aspetti più squisitamente matematici allo studio dei teorici della forma. Hector Berliotz il grande pianista e compositore francese una volta disse: "Il tempo è un grande maestro peccato che finisca con l'uccidere tutti i suoi allievi". Ma da un punto di vista più strettamente tecnico la problematica della notazione musicale che ha richiesto diversi secoli e l'apporto di molti musicisti prima di essere redatta nella forma attuale, rappresenta certamente la più diretta testimonianza di quanto arduo sia stato il lavoro di "rappresentazione" e scrittura di qualcosa al limite dell'astrazione come il concetto del tempo. 





Certo la matematica (anch'essa scienza molto astratta ma che riesce ad essere dannatamente concreta alla bisogna) ha dato forma e ordine ma è bene ricordare da un punto di vista tecnico quanto la musica sia stata importante col suo computo del tempo per esempio nella realizzazione degli orologi meccanici. Ancora oggi la misura del minuto e i suoi 60 secondi (parte del sistema sessagesimale appunto) corrispondono ai 60 bpm (battiti per minuto) del metronomo musicale da cui appunto prendono forma. L'immenso Leonardo da Vinci ancora una volta (ebbene si era anche un musicista, ma c'era qualcosa che non sapesse fare quell'uomo di ingegno?) fu tra i precursori in questa scienza della misurazione che fu poi completata abilmente da Galileo ed applicata alla fisica classica. Ma il concetto della misurazione e divisione del tempo in parti uguali vengono dalla musica che è stato il primo sistema di misura anche con il semplice battito delle mani nella storia dell'uomo. Scienza e arte (e misura) ancora una volta e come spesso accade si compenetrano ed è difficile dire dove inizi l'una e finisca l'altra. 

Dal punto di vista della fisica di Newton il tempo è una quantità indipendente e immutabile rispetto allo spazio concetto che sarà scardinato completamente da Einstein nel XX secolo e dalla sua fisica della relatività che legano spazio e tempo nel continuum dello spaziotempo. Il che significa che non possono esistere in maniera indipendente e assoluta. Il tempo è legato allo spazio e viceversa. Contiamo il tempo dalla nascita dello spazio nell'evento che i cosmologi e i fisici chiamano comunemente Big Bang, prima non esiste lo spazio quindi per la fisica nemmeno il tempo. Il gigantesco orologio del tempo prende il via insieme alla creazione dello spazio e non può esistere senza di esso. 

L'esistenza umana si svolge nello spazio e nel tempo fra i due eventi ciclici di nascita e morte, "tutto scorre" diceva Eraclito e nessuno si bagna due volte nello stesso fiume. I greci avevano grande rispetto per Kronos che non a caso mangiava i suoi figli, ma certo lo scorrere del tempo in epoca antica e moderna non sembrano corrispondere. Oggi viviamo in una società che corre alla velocità della luce ed è in perenne accelerazione, anche la fisica ci dice che l'espansione dell'universo sta accelerando come se il tempo tutto insieme scorresse davvero più velocemente per tutti, è il cosiddetto fenomeno dell'energia oscura del quale i fisici stessi sembrano sapere ancora molto poco al momento.

Marcel Proust nella monumentale Recherche cerca di dare un senso allo scorrere del tempo e lo trova nella memoria e nella forma della parola scritta come manifestazione artistica. Nelle sensazioni,nei ricordi, nel vissuto di ciascuno di noi che siamo capsule del tempo rinchiuse in corpi umani (o anime più o meno tormentate se più vi piace come definizione) si nasconde l'anima in divenire di cui perdiamo conoscenza e memoria. In questo senso Proust è quasi certamente anche un precursore della psicoanalisi, con il suo continuo scavare e cercare alla ricerca di collegamenti di senso nella sua esperienza di vita. Ma è l'esperienza del ricordo in se che assume valore assoluto in Proust. Noi siamo i nostri ricordi che cosa altro potremmo essere d'altronde? Ed è nel ricordo e nella misura del tempo, per quanto relativa ci possa apparire, che troviamo lo strumento della conoscenza ultima, di noi stessi e della nostra appartenenza al mondo.



domenica 19 febbraio 2017

Goodbye to language - Il tempo ritrovato-

Nell'epoca del "villaggio globale" diventa difficile non  occuparsi del linguaggio nella torre di babele dell'unico pianeta abitato del sistema solare. La musica è un linguaggio? Certamente si anche se con sintassi diversa da altri, forse addirittura potrebbe essere "il linguaggio" per eccellenza secondo alcuni vista la capacità di superare barriere di tempo, spazio, lingue, culture ecc... Come non ricordare a questo proposito la scena di "Incontri ravvicinati del terzo tipo" di Spielberg quando non a caso per avviare una possibile comunicazione con gli alieni viene utilizzata la musica. Ovviamente come tutti i linguaggi non verbali la musica può dare adito ad "incomprensioni" o interferenze ed ecco infatti nascere subito la forma canzone il cantautore o i cantastorie. Sono fra le forme più arcaiche ma ancora oggi più utilizzate, le filastrocche le poesie messe in musica, le canzono popolari i canti di lavoro. "Canto ma ti spiego quello che voglio dirti, non voglio che tu pensi a cose che siano altro da questo." Il motto della canzone o delle cantiche e di tutta la poesia in musica nasce da qui, non fosse che la poesia e il linguaggio nascondono a loro volta forme di ambiguità imperscrutabili e diaboliche il che ci riporta al punto di partenza. Ma l'opera d'arte è ambigua no?, Fa parte del suo modus vivendi esserlo. La scienza spiega, l'arte si limita a porre delle domande non da mai risposte anzi, diffidate dagli artisti o presunti tali che pretendono di "rispondere". Si può rispondere al telefono, alle mail, o al citofono, ma la musica e l'arte hanno il compito di porre domande mai di dare risposte. Prendetelo come un criterio di selezione che divide la buona dalla cattiva arte. Nel tempo ci siamo abituati alla musica come pietanza servita con più o meno qualsiasi cosa. In teatro il balletto e l'opera, per strada, al ristorante, al bar, alla radio, in tv o su internet trovatemi un solo posto al mondo dove non esista della musica. Questa faccenda può anche essere a tratti frustrante per la cacofonia di suoni e rumori ma di questo mi riservo di parlare in altro articolo. Qui invece mi preme di prendere spunto dall' ottimo lavoro di Daniel Lanoise per parlare come sempre dei temi che mi stanno più a cuore. Oggi che la musica propio per la sua percezione di "onnipresenza" è stata ormai svuotata di ogni significato intrinseco viene riportata alle sue costituenti primordiali che è l'unico modo forse per riconoscerla e ascoltarla ancora. Sto parlando del suono ovviamente, il suono che sta alla base della musica così come il colore lo è per la tela del pittore. Prendi il suono lo decostruisci, gli togli la voce, gli togli il significato delle parole e gli togli anche il tempo e che cosa resta?

Oggi come ieri chi si occupa di arte toglie non aggiunge. E' paradossale che questa operazione di scomposizione e di pulitura quasi "scultorea" richieda mezzi colossali per essere portata a termine. Quello che ascoltate vi sembra semplice forse? Non fatevi ingannare dalla forma occorre una vita intera per dare forma ad un suono e questo Miles Davis lo sapeva benissimo quando andava a cercare il suono perfetto della sua tromba in riva al lago nella tenuta del padre. Limitare oggi è un mantra che non riguarda solo gli sprechi e i consumi di un pianeta bistrattato da un umanità disattenta e caotica, ma gli artisti e l'arte da sempre.

Il tempo come unità di misura cessa di esistere se destrutturo e riscopro il suono primordiale come fonte quasi mistica o messianica che tutto avvolge, che tutto comprende, che tutto riverbera, che tutto comprime, e dove tutto succede nello stesso momento. Il suono così esposto è una specie di "singolarità nuda" un buco nero che tutto assorbe e dove tutto si riflette, lo spazio e il tempo cessano di esistere ma solo per un osservatore esterno. E allora goodbye to language, che crea solo divisioni e inutili incomprensioni mentre il suono unisce tutti, come assetati alla stessa fonte, come chi torna a casa dopo tanto tempo e ritrova la luce di un pomeriggio della sua infanzia, come il tempo ritrovato di Proust o come l'eternità di Rimbaud.

Elle est retrouvée.
Quoi? - L'Éternité.
C'est la mer allée
Avec le soleil.




lunedì 13 febbraio 2017

L'arte nell'era dell' information technology

Viviamo in un tempo completamente immerso nella tecnologia. La nostra è una società tecnologica e l'uomo moderno un "homo tecnologicus" prima ancora che sapiens. Non è sempre stato così ovviamente anche se l'uomo ha a che fare con la tecnologia dai remoti tempi della scoperta del fuoco o della ruota. Certamente le trasformazioni sono state lente e costanti per molti secoli (almeno considerando gli ultimi 5000 anni di storia) a volte muovendosi in modi quasi impercettibili e imperscrutabili se non attraverso le future e attrezzate lenti della storiografia.  A tratti si sono verificate importanti e impressionanti digressioni, come nel periodo della peste nera in europa nel 1300 che arrivò a distruggere un terzo della popolazione di allora Altre volte invece la tecnologia ha subito balzi quantici improvvisi che ci hanno portato con velocità sempre maggiore verso l'epoca attuale.

A oggi l'accellerazione subita dal processo di tecnologia e informazione è impressionante, ed inarrestabile. La quantità di dati prodotti in rete oggi ogni 60 secondi è enorme e in generale si ritiene che le informazioni prodotte oggi in un solo mese riescano ad eguagliare o anche a superare quelle prodotte in interi secoli del passato. Tutto questo significa che l'accellerazione attraverso la condivisione delle informazioni e della tecnologia avanza ormai in maniera inarrestabile ed esponenziale. Scienziati  nell'ambito dell intelligenza artificiale come Ray Kurzweil ritengono che con la continua applicazione della legge di Moore che vede raddoppiare la potenza dei chip ogni 18 mesi circa e con i computer collegati in rete entro il 2040 la rete sarà ormai provvista di una propria intelligenza che sorpasserà di gran lunga quella umana. Alcuni sostengono addirittura che in misura minore questo stia già accadendo adesso grazie ai milioni di computer e dispositivi mobili collegati in rete nel mondo e in continua crescita.
Conosciamo l'impatto devastante della tecnologia sull'ambiente terrestre e i nefasti effetti a cui stiamo andando incontro dall'inizio dell'era industriale a fine 800, ma cosa sappiamo dell'impatto della tecnologia sulla psicologia umana? La biologia umana si è evoluta e mutata attraverso milioni di anni di selezione naturale attraverso l'ambiente della nostra casa comune la terra. Che cosa possiamo dire delle mutazioni in atto non solo in ambito antropologico ma sociale e psicologico? Essere sottoposti quotidianamente ad un bombardamento mediatico senza precedenti nella storia umana quali effetti provoca? Esistono diversi studi a questo proposito che sottolineano la crescente difficoltà per gli umani di reggere il passo con un accellerazione di queste proporzioni.

“Information is not knowledge.
Knowledge is not wisdom.
Wisdom is not truth.
Truth is not beauty.
Beauty is not love.
Love is not music.
Music is THE BEST.”

Information is not knowledge, dice Zappa nell'album Joe's garage e mai come oggi possiamo facilmente verificarlo. Quando la quantità di informazioni disponibili superano una determinata soglia semplicemente non siamo più in grado di monitorarle/accettarle/comprenderle/digerirle, non siamo macchine siamo umani i nostri sono cervelli biologici non di silicio. I computer anzichè essere uno strumento contro cui competere mettono in luce la nostra umanità e fragilità di individui persi in un mare di informazioni. Le macchine ci invitano ad essere una loro appendice di cui è molto facile divenire schiavi. Possiamo guadagnare in efficenza ma perdiamo in umanità. Quando fu inventata la fotografia a fine 800 furono in molti a pensare che la pittura come forma d'arte avesse ormai i giorni contati. Se io con un click posso ritrarre paesaggi e ritratti a che servono i pittori? Ma questo fu solo l'inizio per l'astrattismo il cubismo e mille nuove forme artistiche che spingevano più in profondità la dimensione della conoscenza artistica anzichè limitarla. Mi sembra un ottimo esempio e una buona parafrasi dei tempi odierni. Ci troviamo ad un bivio con l'information technology e l'automazione attuale dove possiamo scegliere se diventare ancora più umani o trasformarci in semplici appendici delle macchine. La scelta come sempre spetta a noi ed è una scelta alla quale si lega molto del nostro futuro sviluppo come umani. In tutto questo l'arte occupa come sempre un posto di primissimo piano contrariamente a quello che alcuni tecnocrati e futuristi vorrebbero relegarci. L'arte ha la funzione di unire ciò che la tecnica divide, per esempio l'informazione. L'arte come esempio di unità formale e culturale libera da vincoli, non solo rappresenta una valida interpretazione del presente, (così come del passato) ma ci offre anche gli strumenti per comprendere e superare quelle che sono le nostre unicità di animali intelligenti, di homo sapiens che costruisce macchine perchè siano al suo servizio e non viceversa.


martedì 7 febbraio 2017

Il processo creativo.

Consideriamo, per prima cosa, due fattori importanti, i due poli della creazione artistica: da un lato, l’artista e, dall’altro, lo spettatore, il quale, con il tempo, diventa la posterità.
Apparentemente, l’artista agisce come un essere medianico che, dal labirinto al di là del tempo e dello spazio, cerca la sua strada verso uno spazio aperto.
Quindi, se all’artista concediamo gli attributi di un medium, dovremo allora negargli, sul piano estetico, la facoltà di essere pienamente cosciente di quello che fa o del perché lo fa – tutte le decisioni da lui prese durante la realizzazione artistica dell’opera rimangono nell’ambito dell’intuizione e non possono essere tradotte in un’auto-analisi, sia essa condotta a voce, scritta o anche pensata.
T.S. Eliot, nel saggio Tradizione e talento individuale, scrive: «Tanto più perfetto sarà l’artista, tanto più compiutamente separati saranno in lui l’uomo che soffre e la mente che crea; tanto più perfettamente la mente digerirà e trasformerà le passioni che sono il suo materiale».
Ci sono milioni di artisti che creano, solo qualche migliaia vengono discussi o accettati dallo spettatore e meno ancora sono consacrati dalla posterità.
In ultima analisi, l’artista può mettersi a gridare sopra tutti i tetti che possiede del genio, ma dovrà comunque aspettare il verdetto dello spettatore perché le sue dichiarazioni assumano un valore sociale e perché finalmente la posterità lo citi nei manuali di storia dell’arte.
So che questo punto di vista non troverà l’approvazione di molti artisti che rifiutano tale ruolo medianico ed insistono sulla validità della loro piena coscienza durante l’atto creativo – ciononostante, e a più riprese, la storia dell’arte ha fondato le virtù di un’opera su considerazioni del tutto indipendenti rispetto alle spiegazioni razionali dell’artista.
Se l’artista, in quanto essere umano dotato delle migliori intenzioni nei confronti di se stesso e del mondo intero, non gioca alcun ruolo nel giudizio intorno alla sua opera, come si può descrivere il fenomeno che porta lo spettatore a reagire di fronte all’opera d’arte? In altre parole, come nasce questa reazione?
Questo fenomeno può essere paragonato ad un «transfert» operato dall’artista verso lo spettatore sotto forma di un’osmosi estetica che ha luogo tramite la materia inerte: colore, piano, marmo, ecc.
Prima di spingermi più oltre, vorrei mettere in chiaro la nostra interpretazione della parola «Arte» senza, beninteso, cercare di definirla.
Semplicemente, quello che voglio dire è che l’arte può essere buona, cattiva o indifferente ma che, qualunque sia l’epiteto impiegato, noi dobbiamo chiamarla arte: un’arte cattiva è comunque arte, come una cattiva emozione rimane sempre un’emozione.
Di conseguenza, quando più avanti parlo di personale «coefficiente d’arte», resta ben inteso che non soltanto io impiego questo termine in relazione alla grande arte, ma anche che tento di descrivere il meccanismo soggettivo che produce un’opera d’arte allo stato grezzo, per quanto cattiva, buona o indifferente essa possa essere.
Durante l’atto creativo, l’artista procede dall’intenzione alla realizzazione passando attraverso una catena di reazioni totalmente soggettive. La lotta verso la realizzazione è composta da una serie di sforzi, di dolori, di soddisfazioni, di rifiuti, di decisioni che non possono né devono essere pienamente coscienti, perlomeno sul piano estetico.
Il risultato di questa lotta è una differenza tra l’intenzione e la sua realizzazione, differenza di cui l’artista non è affatto cosciente.
In realtà, alla catena di reazioni che accompagnano l’atto creativo manca un anello; questo scarto, che per l’artista rappresenta l’impossibilità di esprimere in modo completo la propria intenzione, questa differenza tra quanto aveva programmato di realizzare e quanto ha effettivamente realizzato, è il personale «coefficiente d’arte» contenuto nell’opera.
In altre parole, il personale «coefficiente d’arte» è come una relazione aritmetica tra «quello che è inespresso ma era programmato» e «quello che è non intenzionalmente espresso ».
Per evitare qualsiasi malinteso, occorre ripetere che questo «coefficiente d’arte» è un’espressione personale «di arte allo stato grezzo» che deve essere «raffinata» da parte dello spettatore, proprio come succede allo zucchero puro partendo dalla melassa. L’indice di questo coefficiente non ha alcuna influenza sul verdetto dello spettatore.
Il processo creativo assume un tutt’altro aspetto quando lo spettatore si trova in presenza del fenomeno della trasformazione; con il cambiamento della materia inerte in opera d’arte, ha luogo una vera e propria transustanziazione e l’importante ruolo dello spettatore è quello di determinare il peso dell’opera sulla bilancia estetica.
In fin dei conti, l’artista non è da solo quando porta a compimento l’atto creativo; c’è anche lo spettatore che stabilisce il contatto fra l’opera e il mondo esterno, decifrando e interpretando le sue qualità profonde, e che, così facendo, aggiunge il proprio contributo al processo creativo. Questo contributo è ancora più evidente nel momento in cui la posterità pronuncia il verdetto definitivo e riabilita artisti che erano dimenticati.

Marcel Duchamp 

[Intervento alla Convention of the American Federation of Arts, Houston, Texas, 3-6 aprile 1957. Pubblicato in Art News, vol. 56, n. 4, estate 1957. Traduzione dal francese di Michele Zaffarano.]